Autore: 
Massimo Maini e Daria Vettori

Toccare ed essere toccati sono comportamenti naturali e innati che ci consentono, in modo immediato, di sintonizzarci con le altre persone attraverso il corpo. Ciascuno di noi vive la propria vita proprio a partire dal con-tatto e la qualità e l'assenza di esso influisce inevitabilmente sulla nostra esistenza e su ciò che siamo a tal punto che è impossibile una vita senza tatto. 

Entrare in con-tatto con un altro individuo significa vivere un'esperienza di confine, una speciale prossimità tra il mio corpo e quello dell'altro, che include la possibilità di vivere esperienze che non divengono totalmente consapevoli. Ogni individuo possiede un suo tatto e con esso definisce la propria modalità, il proprio stile nel rapportarsi al mondo e agli altri individui.  

Pensiamo al valore e al significato che il tatto riveste nei gesti di rassicurazione e conforto, nei quali il bambino, ma anche l'adulto, ancora prima delle parole, sente di essere accolto e ascoltato. Così, nel gesto di con-tatto di un genitore che teneramente e delicatamente si avvicina e tocca il proprio figlio, è iscritta una promessa di cura, un'esperienza di sicurezza che rende possibile ogni esperienza di esplorazione e condivisione.

... noi ci siamo avvicinati e abbiamo abbracciato nostro figlio per la prima volta...senza che lui muovesse un muscolo, era rigido ... in quel momento non mi sono reso conto di quello che stava succedendo...oggi rivedendo le foto di quel giorno, vedo chiaramente quello che allora ho sentito: io lo abbracciavo, lui no...lui era come un manichino!" (papà adottivo)

Siamo tutti consapevoli, di come le esperienze tattili siano importanti nelle nostre relazioni affettive. La pelle rappresenta quella particolare soglia dove esterno ed interno si "toccano", uno spazio "organico" e nello stesso tempo immaginario, un sistema di protezione della nostra individualità ed insieme uno strumento e luogo di scambio con gli altri. 

 

Il contatto è una forma universale e originaria di comunicazione.

 

Il tatto è il nostro primo senso ed è già presente nel grembo materno (Montagu, 1978). Quando lo sviluppo del bambino arriva alla trentaduesima settimana di gestazione, praticamente ogni parte del suo corpo è sensibile al contatto.

Se dunque pensiamo alle nostre prime esperienze di con-tatto, queste iniziano nel corso della gestazione, per poi assumere un valore fondamentale fin dai primi istanti dopo la nascita. Il contatto e le cure genitoriali primarie forniscono un contenimento che genera quella sensazione di confine, di limite corporeo, che permettono la costruzione della sensazione di sé come individuo unico.

Le nostre esperienze tattili, anche molto precoci fanno dunque parte di un bagaglio molto importante, anche se non cosciente, che chiamiamo "memoria implicita". Una memoria iscritta nei nostri corpi, di cui non abbiamo coscienza, una memoria attiva ma silenziosa.

La storia di ciascuno, l'esperienza di con-tatto precoce, rimane impressa in questa memoria, per sempre. Senza volerla necessariamente definire come "buona" o "negativa", essa rimane e probabilmente segna il modo che ciascuno di noi ha di vivere le relazioni, corporee e immaginative, con l'altro. Come si è stati toccati, accarezzati, abbracciati, evidentemente condiziona non solo la nostra "storia", ma ciò che noi siamo, la nostra percezione del mondo e le nostre relazioni. 

 

Se pensiamo a un bambino adottato, egli ha, scritto dentro di sé, ciò che è stato: la sua esperienza nella pancia, la nascita, i primi contatti e incontri. La presenza dell'altro, ma anche l'assenza. 

 

"I tuoi genitori biologici sono i primi che ti hanno tenuto in braccio...sì... ma come? Io so che nel mio istituto c'era una suora che si era molto affezionata a me, ho le foto in cui mi tiene in braccio e mi guarda, mi voleva bene..." (dialogo in gruppo)

Le esperienze, sebbene in molti casi dimenticate, rimangono quindi dentro di loro. I genitori biologici prima, le educatrici o le suore degli istituti poi, gli altri bambini, i fratelli, le sorelle, gli amici: che cosa hanno lasciato queste esperienze nei loro corpi? Come influenzano inconsapevolmente il loro modo di vivere le relazioni oggi? Che fine hanno fatto i gesti, gli abbracci, le carezze che hanno contraddistinto l'infanzia?

Non possiamo infatti negare che il primo incontro del corpo è stato con i genitori biologici, la pancia, la nascita e poi un tempo trascorso insieme, più o meno lungo. Poi altre braccia, a volte tante, tutte differenti. Tutti che toccano in un modo diverso, forse, a volte, affettuoso, caldo, o solo per dare cibo, far sopravvivere, a volte anche per fare del male.

Tutta questa esperienza del corpo non scompare magicamente al momento dell'adozione, rimane dentro, una memoria corporea che segna il modo in cui i figli adottivi accolgono il con-tatto con i loro genitori adottivi. 

Un incontro che in un istante, trasforma ciò che prima era famigliare nella mente, tante volte sognato, in qualcosa di concreto, intenso, ma totalmente sconosciuto. Da una parte ci sono dei "nuovi" genitori che desiderano far sentire il calore del proprio corpo, che hanno fretta di abbracciare, toccare. Dall'altro un bambino che può sentire questi stessi gesti come un'intrusione, o addirittura una violenza, o che tiene le distanze per paura di lasciarsi andare a qualcosa di tanto desiderato quanto sconosciuto.

 

Un incontro che si concretizza in un momento, ma che poi diviene un percorso lungo, a volte faticoso e non lineare.

 

Inizialmente, infatti, è un contatto che non parla di un legame, un contatto fatto solo di sensi e sensazioni, bisogno non desiderio. Il primo incontro è un contatto di storie, di esperienze che si coagulano in un istante, nel gesto che la mano o l'abbraccio consente o impedisce, inibisce.

I bambini impongono tempi e modi della relazione, hanno paura dei grandi che prendono l'iniziativa di toccare, carezzare, abbracciare. Trovare un equilibrio, un ritmo, non è facile. E' una nuova lingua del corpo sconosciuta sia ai piccoli sia agli adulti. I genitori provano sentimenti difficili da gestire: ti desidero, ma, contemporaneamente ti sento estraneo. A volte, la paura di ciò che è sconosciuto diventa tale, da non consentire più al bambino di parlare la propria lingua, costringendolo inconsapevolmente a imparare presto presto quella di chi lo accoglie, vivendo come minaccia uno sguardo triste o una fatica nell'abbraccio.

Unica possibilità è quella, invece, di lasciarsi andare alla relazione con questo figlio/sconosciuto, come un'esperienza di ricerca ed esplorazione, un viaggio nel quale, ciascuno, porta la propria storia corporea, nella ricerca di una possibile nuova consonanza.

Occorre prendersi il tempo per sentire, per costruire un "codice corporeo condiviso" dove lo strumento principale è l'ascolto come forma di apprendimento. Toccarsi è allora un mettersi in ascolto, un parlarsi con i gesti, un invitare a un dialogo che è fatto di attese, attenzione, delicatezza e impegno.

Toccare è sentire, percepire le modificazioni del proprio corpo che incontra un altro corpo, significa sentire di essere esposti all'altro, ma concretizza l'incontro fra due storie di con-tatto, vissute altrove prima di incontrarsi. Tracce che influenzano, che raccontano, che vengono tradotte in attese, comportamenti, paure. Storie di contatti intensi, accudenti oppure di contatti irruenti, violenti o addirittura assenti, ma desiderati e attesi.

Queste diversi modi di toccare ed essere toccati, raccontano le storie di cui noi siamo fatti, nell'incertezza di poter comprendere fino in fondo a chi appartengono, se al figlio adottivo o ai genitori stessi.

Questo non-sapere, però, non è un difetto, un limite ma, al contrario rappresenta l'essenza stessa dell'incontro reale, in "carne e ossa". Un incontro che si trasforma in una ricerca, fatta di ascolto e gesti corporei nei quali e' possibile rintracciare i primi abbozzi di una storia che da immaginata e sognata, diventa "reale" e unica.

Se fino ad un certo punto questa ricerca l'uno dell'altro rimane corporea, spesso inconsapevole, quando arriva l'adolescenza arrivano le domande, sollecitate anche dai vissuti del qui ed ora: Come è stato possibile costruire un legame di corpo con i genitori adottivi, pur non avendo vissuto un "primo contatto"? 

Io delle volte mi chiedo "Come hanno fatto ad amarmi come fosse suo figlio? Così dal niente..." (ragazza adottata)

Domande che trovano una loro specularità nei pensieri degli adulti.

"Ora che è un ragazzino e lo guardo, tanto diverso da me, mi chiedo come ha fatto a riconoscermi come sua madre..."

I ragazzi si chiedono come hanno fatto ad amarsi. Erano estranei, stranieri, certamente differenti da quello che ciascuno aveva immaginato. 

Il corpo che cambia, che sente in un modo diverso, sollecita domande, tante domande: sulla coppia, la nascita, la genitorialità e con esse sull'abbandono. Sul gesto del "dare via", dell'"affidare", il gesto che interrompe forse per sempre ogni contatto, lasciando un'assenza. 

L'idea che i propri genitori biologici possano averli concepiti "per sbaglio", o, ancora più difficile da accogliere, all'interno di una non-relazione, forse anche di "non con-tatto", provoca in loro sentimenti ambivalenti. 

"I figli non dovrebbero capitare. Se uno vuole sa come evitarlo...e comunque basta che non faccia sesso". 

Una durezza che, non solo è rivolta verso le proprie madri e padri biologici, ma che, in qualche modo ricade su se stessi, rendendo difficile accogliere una parte di sé. In questo movimento tra l'identificazione e la negazione, i ragazzi si confrontano arrivando a cogliere aspetti anche molto profondi. 

 

Che cosa significa essere stati fatti da genitori di cui non si conoscono i sentimenti: si amavano? Non si amavano? 

 

Genitori che divengono tutto corpo e sensi, che è difficile immaginare con pensieri e sentimenti. Genitori che non sono più solo madri, ma anche padri, coppie, maschio e femmina. La possibilità di fantasticare, una storia possibile è importante non solo perché consente ai ragazzi di provare a narrare storie, ma diviene un modo per avere meno paura di parti così lontane e nel contempo così vicine al loro sentire. Essi possono in questo modo permettersi di parlare di tematiche che, se negate, rischiano di essere in qualche modo agite nell'esperienza.

La sessualità, rimanda poi ai geni, alle forme dei loro corpi che nel con-tatto si confrontano. In effetti l'aspetto esteriore poco dice di come sono andate veramente le cose, parla di somiglianze possibili, di storie possibili ma non certe.

Le domande sull'amore o sul perché sono nati non ha nessuna certezza. Anche i documenti dicono troppo poco, allora l'unica fonte sono i loro sentimenti, quelli che provano oggi. Il loro desiderio di trovare l'amore, e la fatica nel fare le scelte giuste. Amori grandi finiti, passioni vissute e poi esaurite. I loro stessi corpi, non solo come caratteristiche genetiche, ma come sensazioni divengono un modo per comprendere e costruire storie presenti e passate.

Fondamentale, in questa fase, dare ai ragazzi la possibilità di pensare e avere uno spazio di confronto. Se, infatti, in adolescenza la ricerca del sé passa attraverso il corpo, il rischio è quello di rimanere sul piano delle sensazioni. Il ragazzo si guarda da fuori ed esiste nel sentire, nelle sensazioni che prova sulla superficie della pelle. Egli ha bisogno di mettere insieme il corpo e la mente, il genitore adottivo e quello biologico, un sé antico, presente e futuro. I genitori adottivi che non sono solo mente, e quelli biologici che non sono solo corpo. Integrazione necessaria per ritrovare se stessi.

Dunque la mamma e il papà adottivi possono divenire una coppia non solo genitoriale, ma anche "sessuale", che fa l'amore. Coppie che si toccano, che hanno una loro intimità non necessariamente condivisa con i figli, ma presente e pensabile. Quell'intimità che consente di riconoscere una dimensione corporea nell'esperienza genitoriale adottiva, e a recuperare il con-tatto.

 

 

Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo, svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell'identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l'attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna.

 

Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta. Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell'affido e dell'adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell'attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children's Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l'adozione. Insegna Pedagogia dell'Affido e dell'Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Parma.

Data di pubblicazione: 
Sabato, Ottobre 1, 2016

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