Autore: 
Luigi Bulotta

Immaginate, per un momento, di essere stati colpiti dalla povertà causata dalla crisi finanziaria in corso o dal mancato raccolto e accettiate un'offerta fatta da funzionari locali affinché vostro figlio sia accudito temporaneamente in un centro di assistenza per bambini fino a quando la vostra situazione economica non sarà migliorata. Ora immaginate di andare a trovare i vostri figli, solo per essere informati che sono stati inviati all'estero per adozione internazionale e il funzionario del centro vi spiega che la vostra casa era troppo lontana per avvisarvi e tanto meno per chiedere la vostra opinione.

Con queste terribili parole inizia uno degli articoli con cui Peter Bille Larsen nel 2008 iniziò una campagna d'informazione per denunciare alle autorità competenti e all'opinione pubblica quello che era accaduto ad alcune famiglie Ruc, una minoranza etnica che abitava nella provincia vietnamita di Quang Bình, una zona montuosa al confine con il Laos. Larsen, un antropologo danese che, a causa del suo lavoro, aveva frequentato per anni quell'area ed era in confidenza con la comunità Ruc, raccolse un giorno le confidenze di una di loro. Secondo il racconto di questa mamma, alcuni funzionari locali del centro di accoglienza per bambini di Dông Hòi (100 km. di distanza), il capoluogo della provincia, erano andati a trovarli insieme alle autorità comunali offrendo loro aiuto per i bambini. Dopo alcune visite, diverse famiglie si fecero convincere, nei primi mesi del 2006, a mandare i propri figli al centro di Dông Hòi. Quelli che però avrebbero dovuto essere brevi soggiorni, finalizzati esclusivamente a fornire a quelle famiglie bisognose un aiuto temporaneo a tirar su i propri figli, si trasformò in qualcosa di molto diverso. La mamma racconta che quando era andata in città a trovare i suoi figli - a metà circa del 2006 - le era stato detto che i suoi bambini non erano più lì e che non era stata informata che i bambini stavano per essere adottati a causa dell'eccessiva distanza tra il centro e il villaggio. Era tornata a casa con una foto raffigurante quella che sembrava una cerimonia in cui i suoi figli venivano consegnati a degli stranieri. A quel punto i genitori accusarono il centro di accoglienza di averli truffati, di aver carpito la loro buona fede per sottrarre loro i figli.  Solo diverso tempo dopo, quando le accuse dei genitori hanno avuto risalto sui media locali, il centro, ormai sotto pressione, ha mostrato i documenti relativi alle adozioni - avvenute in Italia - ed ha esibito le lettera manoscritta e firmate dai genitori con cui essi autorizzavano il centro stesso a dare in adozione i propri figli. Queste lettere che esprimevano un consenso formulato in maniera standard, una singola frase in cui si diceva che gli autori acconsentivano che i figli potessero essere adottati da genitori stranieri durante il loro soggiorno al centro e che gli stessi non avrebbero sporto querela contro l'adozione, sollevarono, chiaramente, le perplessità di Larsen e di altri osservatori. Come si può pensare che dei genitori analfabeti, persone che a malapena sapevano scarabocchiare la propria firma, abbiano scritto di loro pugno delle lettere con cui consegnavano, di fatto, la vita ed il futuro dei propri figli al direttore del centro di accoglienza? Come non pensare ad un coinvolgimento diretto di quest'ultimo nella stesura delle lettere, tutte simili, ed in tutto quello che da esse ne conseguì?

La posizione del centro e del suo direttore, e di conseguenza di tutto il sistema adottivo vietnamita, viene analizzata e criticata da Larsen:

"Ciò può davvero indicare un possibile conflitto di interessi tra l'essere il manager di un centro di accoglienza, il cui fine è di restituire un bambino alla sua famiglia, e un manager di un centro che riceve un contributo governativo per ogni bambino presente al centro (in questo caso 150.000 VND al mese), così come a volte riceve un contributo dalle organizzazioni per le adozioni internazionali in funzione dell'aiuto fornito. Questo conflitto di interessi è ulteriormente acuito dal coinvolgimento diretto dei centri di accoglienza nella ricerca proattiva di bambini, assumendo decisioni sull'adozione e facilitando l'incontro tra famiglie adottive e dossier specifici.
Così le agenzie di adozioni registrate nel 2004 hanno fornito qualcosa come 620.000 USD a 40 centri in 30 province, cifra che sembra essere salita a 930.000 nel 2005"
.

Larsen osserva che esiste una contraddizione tra i due documenti che corredano ogni fascicolo adottivo: da una parte la lettera manoscritta con cui il singolo genitore approvava l'eventuale adozione, che è datata con il solo anno (2005), dall'altra il documento, datato gennaio 2006, con cui l'autorità provinciale confermava l'accettazione dei bambini presso il centro provinciale di accoglienza e in cui non veniva fatto alcun cenno ad un'ipotesi di adozione mentre si faceva espresso riferimento al ritorno a casa del minore al venir meno dello stato di necessità della famiglia. Un altro aspetto dell'intera vicenda che ha suscitato forti perplessità è che diversi dei bambini Ruc riportano nei documenti adottivi date di nascita più recenti di quelle reali, diminuendone l'età anche di cinque anni. Secondo quanto riportato da Simon Parry dell'agenzia Red Door News in un articolo pubblicato recentemente: "Le famiglie pensano che le età siano state modificate per rendere i bambini più attraenti agli occhi dei genitori adottivi e per eludere un obbligo legale del Vietnam per i bambini di età superiore a nove anni che li costringe a firmare dei documenti per acconsentire all'adozione all'estero", e aggiunge: "Queste modifiche sono questioni menzionate in un rapporto della polizia pubblicato alla fine dello scorso anno come "irregolarità" e "errori" nel processo di adozione. Il rapporto ha concluso, tuttavia, che non vi era stata corruzione, anche se l'agenzia italiana che ha organizzato le adozioni, Ariete, ha pagato quasi 50.000 dollari alla casa dei bambini prima di chiudere il suo ufficio di Dòng Hòi". In effetti, diverse fonti riportano la notizia dei contributi economici corrisposti dall'ente Ariete al centro di Dông Hòi (49.000 dollari in tre anni). Nessuno però menziona che questa non è stata un'iniziativa dell'ente, ma un'attività inserita in tutti gli accordi bilaterali in quanto prevista dalle leggi vietnamite in materia di adozioni. Di certo questo non sembra essere il miglior modo di fare cooperazione con i paesi con cui si fanno adozioni internazionali, perché queste modalità si prestano ad incentivare abusi, se non un vero e proprio sistema che, anziché intervenire sulle cause dell'abbandono per prevenirlo, paradossalmente lo alimenta. Il Vietnam, ricordiamolo, aveva nel 2006 un reddito medio pro capite di soli 726 dollari e in cui più di un quinto del paese viveva in povertà, con meno di 200 dollari all'anno. Un rapporto del 2009, commissionato dall'Unicef al Servizio Sociale Internazionale, punta il dito sugli aiuti diretti agli istituti, i cosiddetti "aiuti umanitari", che sono spesso indistinguibili all'interno dei costi adottivi e aggiungono quantomeno mancanza di trasparenza, se non fungere da volano all'abbandono. Secondo il rapporto: "Sembra che ci possano essere anche potenziali incentivi finanziari per abbandonare o rinunciare ad un figlio. L'indagine degli Stati Uniti, per esempio, ha stabilito che il 75% dei genitori biologici che sono stati intervistati da un funzionario consolare (...) ha ricevuto somme dall'orfanotrofio. (...) Molte di queste famiglie hanno riferito che questi pagamenti sono stati il motivo principale per cui hanno collocato i loro bambini in un orfanotrofio."

Questo a dispetto di quanto previsto dalla legislazione sociale vietnamita che avrebbe dovuto privilegiare l'aiuto all'interno delle comunità di appartenenza e non, invece, favorire l'istituzionalizzazione indiscriminata dei bambini. Secondo quanto riportato da Larsen nel suo articolo: "L'adozione deve essere l'ultima risorsa. Inoltre l'attuale legge di solidarietà sociale non fa riferimento specifico all'invio di bambini bisognosi appartenenti a minoranze etniche in centri di accoglienza. La legge, nei suoi articoli 6 e 7, parla di orfani, malati di mente, persone anziane sole e persone con disabilità grave. E' anche previsto, dall'articolo 8, che per gli altri bambini che sono inviati volontariamente a tali centri da parte dei genitori sarebbe richiesto alle famiglie di sostenerne tutti i costi. Altri possibili beneficiari possono essere accettati con un aiuto sociale "una-tantum" motivato da calamità naturali o cause di forza maggiore come morte, fame e feriti. Eppure, si tratta di misure eccezionali, non pratiche regolari come nel caso di questi bambini appartenenti a minoranze etniche."

Il caso dei bambini Ruc, grazie ad una petizione fatta dalle famiglie alle autorità e fatta pervenire ad alcuni giornali, ha guadagnato le attenzioni delle autorità e della stampa vietnamita, che gli sta dedicando frequenti articoli. L'inchiesta della polizia ha stabilito irregolarità, ma non ha accertato alcuna truffa nei procedimenti adottivi. Il nuovo direttore del centro di Dông Hòi ha presentato le sue scuse alle famiglie Ruc e ha indetto una riunione che si è svolta presso il centro a novembre dello scorso anno. In quell'occasione i genitori vietnamiti hanno potuto finalmente vedere le foto dei loro figli insieme alle loro famiglie italiane. Secondo quanto riportato nell'articolo di Simon Parry, che ha intervistato due mamme Ruc, una di esse in occasione dell'incontro di novembre è venuta in possesso di un elenco che riporta i nomi e i recapiti delle famiglie italiane: "Lei e Thu non sanno cosa sia. Riconoscono i nomi dei loro figli nella lista ma, essendo analfabete, non comprendono di più. L'elenco, dice Hong, le è stato dato da un giovane funzionario dopo la riunione di novembre, insieme ad altri documenti. Nel momento in cui ne entra in possesso, il suo significato diventa immediatamente chiaro. Sulla carta vi sono i nomi e gli indirizzi delle coppie italiane che hanno adottato i bambini - tutte quante. Hong possiede i mezzi per ristabilire un contatto con i suoi figli, e ricollegare ogni altra famiglia coinvolta. Lei non ricorda chi le ha dato l'elenco o perché. Forse era un funzionario simpatico che ha deciso che era la cosa giusta da fare. Forse è stato consegnato per errore."

Sotto i riflettori di un'opinione pubblica ormai attenta, sul caso è stata aperta una nuova inchiesta da parte delle autorità vietnamite e a tutti, da noi semplici osservatori alla nostra CAI, non resta che attenderne i risultati prima di poter aggiungere altro a questa storia di cui tanto si è discusso. Ben vengano le sacrosante riflessioni che questo episodio solleva, che possono e devono coinvolgere il nostro modo di fare adozioni nel mondo e lo sforzo di trovare modalità sempre più rispettose dei diritti dei minori coinvolti e sempre meno intrusive nei confronti dei paesi da cui essi provengono. Dobbiamo però cercare di abbassare il livello di attenzione che si sta rivolgendo ai soggetti coinvolti in questa storia - soprattutto ai bambini - i cui nomi stanno ultimamente circolando indisturbati su internet. Loro, che hanno subito l'abbandono - vero o presunto che sia stato - e lo strappo di chi, soprattutto non più piccino, viene proiettato dall'altra parte del mondo a costruirsi una nuova vita, hanno diritto alla tutela della privacy e a tutto il  nostro rispetto.

 

 

"Will the Ruc children come home?"

Revisiting the words of a Ruc mother, legal loopholes and Vietnamese social policy.

Peter Bille Larsen, anthropologist, 10.5.2008

 

"Will my child come home?"

Shedding light on the grey-zones of international adoption.

Peter Bille Larsen, anthropologist, 14.10.2008

 

"Pictures of hope"

Simon Parry, 20.2.2011

Red Door News, Hong Kong

 

"Adoption from Viet Nam"

Findings and recommendations of an assessment.

International Social Service, 2009

 

I brani tratti dagli articoli sopra citati sono stati riportati con il consenso dei rispettivi autori.

Data di pubblicazione: 
Venerdì, Aprile 8, 2011

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