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Contributi

La ferita dell'abbandono

A cura di: Ivana De Bono 
Data: 12-03-2007
Argomento: Parlare di adozione

Riportiamo volentieri un brano di un lavoro della Dott.ssa Ivana De Bono.
Il testo integrale è scaricabile qui: Dal trauma all'esperienza adottiva

Un bambino che sperimenta, alla nascita o successivamente, la separazione forzata dai propri genitori biologici, qualunque sia la motivazione, certamente vive una situazione traumatica, spesso con carattere cumulativo, che altera una condizione fisiologica di crescita e che determina una dinamica intrapsichica e relazionale che condiziona i futuri possibili attaccamenti a nuove figure genitoriali. Per comprendere come tracce dell’esperienza dell’abbandono possono rimanere nel vissuto intrapsichico e nel processo di maturazione individuale, occorre considerare le prime fasi evolutive della vita affettiva e mentale, non trascurando l’importanza che assume l’esperienza
intrauterina.
La storia di un bambino comincia prima della sua nascita e prima ancora del suo concepimento. Il bambino immaginato dai futuri genitori si permea della loro storia individuale, delle loro dinamiche di coppia, della loro personale storia familiare e del loro proprio mondo mentale popolato di figure del passato e del presente, in una miscellanea di speranze, aspettative, timori, mancanze. Un neonato arriva quindi già immerso in una storia, già impregnato di proiezioni dell’adulto, ma anche di un vissuto che ha potuto avvertire all’interno del grembo materno attraverso canali sensoriali, vascolari e umorali. La madre, infatti, non trasmette solo nutrimento ed ossigeno, ma anche elementi attinenti al suo stato mentale ed emotivo che, come abbiamo visto, indirizzano fin dalle prime fasi di vita il comportamento del neonato in una complessa interazione con la sua dotazione genica. Questa storia presensoriale, già impressa nel codice fetale, si dispiega attraverso la nascita in una continuità ambientale, mentale ed affettiva rappresentata dai genitori.
Nel passaggio da una situazione intrauterina, protetta ed omogenea, ad una segnata dalla ciclicità e dal ritmo, il neonato vive un momento trasformativo di discontinuità: abitato da una valanga di sensazioni corporee sconosciute e non ancora pensabili, egli ritrova la continuità ambientale, mentale ed affettiva nella madre che fin dall'inizio si propone come contenitore strutturante. Quando il neonato è travolto da sensazioni ed emozioni che possono sopraffarlo, il ruolo della madre è di prenderle dentro di sé per restituirle al bambino in una forma più accettabile e digeribile. Questi può così imparare a riconoscere le proprie esperienze, a dar loro una forma, a trasformare le esperienze sensoriali in contenuti mentali e psichici, iniziando così a costruire un’immagine positiva ed integrata di sé. Il neonato assimila in tal modo un modello di come si può trattare il disagio e contribuisce attivamente al già avviato processo della comunicazione e della comprensione
reciproca.
Il processo di apprendimento, ormai iniziato, coinvolge entrambi in modo attivo. Madre e bambino sono una diade in cui si verifica una danza comunicativa, in gran parte inconscia. Il lattante non è ancora in grado di distinguere fra il dentro e il fuori da sé, fra una stimolazione endogena e una esogena, ma ha già una capacità empatica (che varia da individuo a individuo) di percepire lo stato conscio ed inconscio della madre, di coglierne l’affettività e la disponibilità emotiva nei propri confronti. Attraverso la mimica facciale e l’espressività vocale e gestuale, è capace di comunicare le proprie esperienze affettive e mentali e di attivare nella madre le risposte più adeguate alle sue necessità, sia strettamente fisiologiche che affettive. La madre deve però saper cogliere i segnali del bambino: per riuscirci è fondamentale che mantenga un equilibrio fra la propria empatia verso quelli che ritiene siano i bisogni del bambino e la propria obiettività nel considerarlo come una unità indipendente dai propri pensieri, sentimenti e fantasie. Se ciò non accadesse, rischierebbe di
rispondere di più ai propri sentimenti e pensieri interni, erroneamente scambiati per quelli del bambino. La madre, inoltre, per funzionare da buon contenitore, necessita a sua volta di sentirsi contenuta non solo da un partner e da un ambiente esterno favorevole, ma anche da un mondo  interno capace di sostenerla, in grado cioè di “tenere insieme sia la riattivazione regressiva del suo essere figlia, sia il nuovo ruolo e l’immagine di una madre interna da cui recuperare un modello”.
Il risultato di questa prima interazione è il costituirsi nel bambino di un primitivo senso di integrità e sicurezza interiore che è la base della fiducia, che si riflette nella regolarità dell'alimentazione, dell'evacuazione e del ritmo sonno-veglia. Il benessere del bambino permette alla madre di ridurre la sua ansia, di rinforzare la fiducia nelle proprie capacità personali e di contribuire ulteriormente all'instaurarsi nel bambino di una risposta di fiducia collegata alla sensazione della madre di essere degna di fiducia.
La capacità di avere fiducia è fondamentale per ogni tipo di relazione umana e il grado in cui viene menomata avrà un'influenza determinante sugli eventuali futuri eventi psicopatologici e nei rapporti interpersonali. Se ci sono stati privazione sensoriale, eccessiva stimolazione o cure incostanti, il bambino potrà avere difficoltà o anche gravi conseguenze in futuro. Ogni essere umano porta dentro  di sé un residuo di sfiducia che riflette il parziale insuccesso della mutua regolazione tra madre e bambino. Ciò non significa che lo sviluppo ottimale sia solo una questione di gratificazioni: è essenziale che si sperimentino dilazioni e frustrazione affinché il bambino possa progressivamente riconoscere che egli non è la fonte della propria gratificazione. Quando il bambino piccolo comincia ad affrontare – pur nella continuità della relazione affettiva – l'assenza della madre, egli fa la sua prima esperienza di lutto, che rappresenta il primo passo verso la crescita e l'individuazione. È  infatti in questa prima perdita, nel vuoto lasciato dalla madre, che si attivano le funzioni mnemoniche, il pensiero e il riconoscimento dell'altro. Se nella relazione primaria ha potuto sperimentare un primitivo senso di integrità e sicurezza interiore, egli troverà la capacità di dilazionare le gratificazioni con un senso di fiduciosa aspettativa; e gradualmente acquisirà una crescente capacità di tollerare le frustrazioni e le separazioni che lo porteranno verso l'autonomia. Questa capacità si rivela fondamentale nel processo di crescita, continuamente attraversato da  separazioni ed attaccamenti. Per crescere, infatti, è necessario separarsi da persone, livelli di funzionamento, stili di pensiero e di relazione per stabilire nuovi attaccamenti e per orientarsi o  riorientarsi sulla via dell'autorealizzazione.
Karen Horney sostiene che l'essere umano ha un impulso innato a sviluppare le proprie potenziali capacità, ma necessita di condizioni favorevoli affinché queste possano realizzarsi. Se il bambino,  nell’interagire con l’ambiente che ha cura di lui, si sente accolto nell'espressione dei suoi desideri,  se il suo affermarsi nella differenza dall'altro non incontra ostacoli ma attenzioni, è possibile che interiorizzi il piacere della crescita, il piacere di sentirsi se stesso, dove il sentirsi separato dall'altro può essere vissuto come una conquista positiva e non come esclusione di sé o dell'altro”.
Altro  piccolo inciso con un esempio che, pur anticipando il tema dei paragrafi successivi, ci fa capire  bene quanto abbiamo appena espresso, ma anche quanto i bisogni dei bambini adottati possano  aiutarci a capire meglio gli imprescindibili bisogni di tutti i bambini. “Mamma, ma te sei venuta a prendermi perché volevi un bambino o perché mi volevi bene?” è la frase che ha detto Lorenzo (6  anni, adottato a 6 mesi) alla sua mamma. I bambini riescono a mettere al muro i genitori con le loro  frasi improvvise e paralizzanti. Lorenzo sembra voler esprimere che due bisogni possono contrapporsi, tanto da doverne scegliere uno con l’annullamento dell’altro. Non è forse la sua storia, la storia di tanti bambini che hanno subìto nel loro passato una frattura nella continuità della loro  esistenza? Non è forse la storia di tanti, troppi bambini non rispettati nella loro autenticità ed  originalità di individui? Se, al contrario, il bambino cresce in un ambiente che svaluta la sua individualità e ogni suo tentativo di autonomia, egli vivrà nel conflitto fra il desiderio di affermare la propria individualità – percepita però come un attacco all'ambiente da cui dipende – e il timore di perdere la protezione di cui ha bisogno. Pur di soddisfare il proprio bisogno di sicurezza, il bambino potrà allora conformarsi alle aspettative esterne, ai bisogni altrui, nel tentativo di contenere la sua  “ansia di base” (Horney, 1950, p.16).
Questa precoce modalità relazionale, segnata dall'uso dell'altro, può condurre ad un allontanamento progressivo dai propri sentimenti e desideri, fino all'alienazione dal vero Sé, "quella centrale, intima forza, comune a tutti gli esseri umani eppure unica in ciascuno, che è la profonda determinante dello sviluppo individuale" (ivi, p.15).
Alla luce di quanto affermato finora, possiamo comprendere l’estrema fragilità e sensibilità di un qualsiasi bambino indesiderato, trascurato, dimenticato; e, ancor più, di un bambino che ha vissuto  l’esperienza dell’abbandono e per il quale la separazione si connota più come un fattore di rischio che come un fattore di crescita. La qualità traumatica dell'abbandono non deriva soltanto dalla perdita della madre in sé, ma dal suo verificarsi in una fase dello sviluppo emozionale del bambino in cui l'uso di meccanismi arcaici di difesa, per allontanare il dolore intollerabile, è l'unica alternativa alla mancanza di accudimento-contenimento. È la madre che funge da contenitore di tutti  gli stati emotivi del bambino ed è capace di trasformare i segni da lui manifestati in segnali comunicativi. Il contenimento dell'esperienza emotiva costituisce quindi la base affettiva del pensiero ed occorre recuperare questa pensabilità affinché le forze costruttive ed integrative tornino a prevalere su quelle disgreganti e autodistruttive. L'abbandono della madre, infatti, può far insorgere angosce molto intense di frammentazione e sensazioni catastrofiche per lo sfumarsi di ogni confine. "L'esperienza di neonati che giungono a graffiarsi o presentano gravi alterazioni del sonno, della pelle o delle funzioni digestive rivela una modalità autodistruttiva come difesa da sentimenti di disintegrazione" (Farri Monaco e Peila Castellani, 1994, p.150).
La matrice relazionale appresa nelle prime fasi dello sviluppo tende a riproporsi ad ogni passaggio evolutivo, ad ogni cambiamento. Nella vita di un bambino che ha già vissuto la separazione in modo traumatico, anche l’adozione è un cambiamento e rappresenta ad un tempo una perdita ed una  acquisizione, una separazione e un attaccamento. Proprio in questo passaggio evolutivo, che mira a dare una famiglia ad un bambino che ne è privo, possono allora rinforzarsi meccanismi di difesa  quali la scissione, la negazione e l’identificazione con l’aggressore, a cui il bambino ha già dovuto ricorrere per tenere lontano il proprio dolore. In tal caso, se da un lato assistiamo al reiterarsi di distorte modalità relazionali acquisite precedentemente per il mantenimento di una pseudo-sicurezza di base, dall’altro possiamo comprendere che il regressivo ripetersi di comportamenti normalmente attribuibili a fasi precedenti dello sviluppo rappresenta il tentativo del bambino di  ricevere finalmente una risposta diversa, adeguatamente risanante, che chiede un adulto in grado di  ripristinare quella fiducia di base che è stata precocemente lesa. Nel contesto relazionale precoce trovano la loro origine quelle carenze e distorsioni che in seguito può manifestare il bambino adottato. Pur tenendo presente la variabilità delle singole storie (età dell’abbandono, qualità delle esperienze nella famiglia d’origine e nell’istituto di provenienza, eventuali affidamenti o adozioni fallite, etc.), riportiamo le più significative per comprendere l’importante funzione di accadimento e sostegno che deve necessariamente assumere la famiglia adottiva per assolvere il suo compito   riparativo e trasformativo.
“Nei bambini più piccoli spesso è presente il comportamento dell’autodondolamento che riflette la mancanza di un abbraccio contenitivo, che è fisico, ma anche e soprattutto affettivo e mentale. La tendenza del bambino ad autococcolarsi per lenire i propri penosi stati d’animo può sfociare – soprattutto quando l’abbandono è avvenuto nei primi momenti di vita – in forme più violente e drammatiche (sbattere contro il lettino per darsi un confine, o contro un muro per distruggere i sentimenti interni di disintegrazione). Più tardi l’ipereccitabilità motoria, che si presenta frequentemente, sta ad indicare ancora una volta il non essere stati contenuti e pensati, la difficoltà a stare dentro confini non sperimentati e a rispettare regole a suo tempo non introiettate.
Anche la pseudoautonomia (l’essere “omini in miniatura”, il “far da sé”), che troviamo quasi di norma nei bambini adottati in età prescolare o scolare, testimonia il bisogno di negare l’assenza dell’Altro e di tenere distante la propria sofferenza: non si può aver bisogno dell’altro, altrimenti si dovrebbe ammettere quel dolore senza nome che fa troppa paura; non si può scoperchiare la propria pentola, altrimenti si rischierebbe di rimanere ancora una volta soli e terrorizzati. L’incapacità di piangere per una contusione o una ferita fa pure parte dello stesso aspetto. Si dice che tutti i bambini sono fatti di gomma, ma questi lo sono di più: hanno ridotto o perso la capacità di percepire il proprio dolore da cui progressivamente si sono anestetizzati; e non hanno la piena percezione dei pericoli, perché non conoscono il senso del limite che nessuno, o  quasi, ha dato loro. Di solito conoscono le rigide regole dell’istituto, ma queste arrivano più tardi e si pongono in continuità con quanto hanno già cominciato ad agire dentro e fuori di loro. La mancanza del limite la ritroviamo in quei bambini che girano come forsennati in una piazza o dentro una scuola, sopraffatti dalla paura della propria paura e da stimoli eccessivi che non sono in grado di metabolizzare. La ritroviamo anche in quei bambini che, appena si trovano all’aperto, sembrano entrare in confusione, in sovreccitazione e, non avendo avuto un corretto attaccamento, seguono chiunque si ponga sul loro cammino” (De Bono, Edizioni ETS, in corso di pubblicazione).
Anche le difficoltà di attenzione e di apprendimento che spesso insorgono in età scolare sono da ricondursi alla prima relazione madre-bambino, all’interno della quale possiamo rintracciare i precursori del desiderio di conoscenza. Nella storia pregressa del bambino adottato il cammino dalla dipendenza all’indipendenza “non si è probabilmente realizzato in modo adeguato e integrato; la difficile elaborazione della perdita dell’oggetto d’amore materno ostacola la possibilità di nuovi investimenti affettivi e intellettivi, riattivando nell’inconscio antiche angosce persecutorie che dilagano e occupano in modo massiccio la mente. Viene così impedita la formazione di uno spazio interno in cui introiettare la conoscenza e l’apprendimento. Separarsi significa avere dentro di sé un oggetto buono, la madre, da cui allontanarsi senza il timore di perderlo definitivamente. Solo su questa ‘base sicura’ l’impulso innato alla conoscenza (o istinto epistemofilico) riesce ad attivarsi permettendo la conquista del nuovo. Il bambino è in grado di stare con la mamma e di affrontare l’esperienza scolastica quando sa che esiste il ritorno e il ritrovarsi insieme. Creare nuovi legami fra ciò che si sa e ciò che si deve imparare, fra il passato e il presente, fonda l’attività del pensiero, di cui l’apprendimento costituisce una parte. Nel bambino adottivo la memoria del passato suscita l’angoscia dell’antica perdita che, se non viene accettata ed elaborata dentro di sé e nella relazione parentale, tende a paralizzare la mente non predisponendola al cambiamento verso la conoscenza. Infatti sono spesso presenti disturbi della memoria, che segnalano l’impossibilità di rievocare un passato troppo doloroso per poter essere contenuto dentro di sé” (Farri Monaco e Peila Castellani, 1994, p.198-199).
Un bambino precocemente segnato dall’abbandono non è stato accompagnato nei suoi primi passi di esplorazione del mondo, sia interno che esterno; non ha ricevuto il sostegno di una figura accudente capace di dare un nome ai suoi stati emotivi, che sono rimasti sconosciuti dentro di lui, incontrollabili e minacciosi. Imparare significa aprirsi con curiosità al nuovo e all’ignoto, significa sapersi avventurare verso il mare aperto con la fiducia di poter attingere alle proprie capacità e con la sicurezza di poter sempre ritrovare un porto. E se imparare significa soprattutto saper reggere la frustrazione del proprio limite (di non sapere), il bambino adottato ha ancora bisogno di un porto sicuro dove possa trovare il calore e la protezione di un adulto in grado di contenere quegli stati  d’animo che in passato lo hanno sommerso e reso fragile ad ogni successiva frustrazione.


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