Autore: 
Daniela Lupo
“Prendi una femminuccia” mi suggerivi. Perché? Pensi che potrebbe essere più docile e tranquilla, più remissiva forse. Che cosa temi per me, se pure il figlio, non generato ma voluto con consapevolezza, determinazione e un po’ di (sana) incoscienza, dovesse essere un maschietto? Vorrei chiedertelo, ma il fiato mi manca e non voglio inoltrarmi in terreni difficili e accidentati, oltre che inevitabilmente dolorosi. Sono sul punto di dire, ma mi taccio. 
 
Penso fra me e non ti dico quello che penso: i figli non si scelgono e certamente nemmeno tu li hai scelti. E dunque perché dovrei scegliere io? Perché sarò una mamma adottiva? Che cosa dovrei scegliere se non la volontà di non scegliere e di affidarmi ad una casualità gioiosa che ha il sapore della vita? Le tue parole mi restituiscono come l’idea di una maternità surrogata, un’esperienza minore ed io invece voglio volare e chiudere gli occhi, avendo fiducia nella combinazione fatale di carte, giudici e sentenze perché è di questo che ho bisogno, scelgo questa come mia gestazione e mi sta bene non sapere né volere. Ho fiducia che chi verrà sarà mio figlio, comunque. Non cerco il bastone per la vecchiaia, non cerco un rapporto condizionato sul nascere, non cerco niente per me se non essere madre e sentirmi madre. Non devo salvare nessuno né essere salvata.
 
Poi è arrivato un maschietto e tu, mio amatissimo genitore che mi hai generato e a cui devo metà del mio patrimonio genetico, gli hai voluto bene tanto, da subito e sempre di più negli anni, fino all’ultimo giorno.
 
Il figlio arrivato per adozione ha scardinato ogni tua certezza sul valore del sangue, del cognome e della famiglia tradizionale. Hai amato con tutto il cuore un bambino che ogni giorno smentiva il tuo desiderio di rispecchiamento personale, somatico, familiare e culturale. 
 
L’adozione sviluppa nella mente e nel cuore delle persone un grumo di pensieri ed emozioni che gravitano intorno a un’unica matrice, quella del pietismo e del buonismo, del “poveri bambini” e del “menomale”. Bisogna comprendere e accogliere gli altri, certo, anche se non sempre se ne ha la forza, ma anche guidarli a formulare un pensiero ripulito da moralismi, realistico, corretto. Guidare a comprendere pienamente. Poche persone commentano con malignità e per ferire. I più semplicemente parlano così, giusto per farlo, e alcuni non provano empatia né desiderio di compenetrarsi e conoscere dal di dentro la condizione altrui con il suo portato di complessità.
 
Mio figlio era da poco con noi, era estate e andammo al mare, nella spiaggia del paesino dove abito. È  incredibile come in un attimo si fosse creato intorno e sopra di noi un capannello di persone affettuose-benpensanti, tutte pronte a osservare, soppesare, valutare. Come Tippi Hedren e Rod Taylor nello straordinario film “Gli uccelli” di Hitchcock, ci ritrovammo circondati e sovrastati non da stormi di uccelli, ma da uno stuolo di persone che ci si chiuse addosso a mo’ di cupola, un nugolo sussurrante su di noi che stavamo seduti su un telo da mare, mio marito ed io, quasi indifesi direi, con il nostro piccolo nel mezzo. 
 
Tante considerazioni, che mi arrivavano come fastidiose punture di zanzara o in alcuni casi stilettate, cui assistevo incredula e incapace di ribattere. “Ma è magro, in questi orfanotrofi non gli danno da mangiare!”; “Dategli la carne, lo vedete com’è sciupato!?”;  “Ma gli avete spalmato la crema protettiva per il sole? Qui non è come da loro”; “Avete fatto una cosa che dovremmo fare tutti”; “Poveri bambini, ma come li trattano?!?”; “Questi paesi comunisti, ex comunisti…”; “Vedrete che si affezionerà”; “Siete stati fortunati, ma più di voi lui!”.
 
Tante cose dette, con immediatezza e facilità, senza l’accortezza di utilizzare qualche momento in più e beneficiare di una pausa riflessiva prima di attivare tutti gli organi fonatori per spararla più o meno grossa. 
 
Tuttavia, fra le tante, una battuta mi ha lasciato un buon groviglio di rabbia perché profondamente ingiusta. È stato il facile giudizio sulla Russia di 13 anni fa,  un paese grande, arretrato, contraddittorio, con una storia lunghissima e complicata, senza democrazia e libertà di pensiero, ma tuttavia uno Stato che si è preso cura di mio figlio quando era ancora “figlio di nessuno”, soccorrendolo e curando la sua salute e offrendo rimedi che si sono rivelati fondamentali per la sua crescita.
 
Con il tempo ho capito che certe considerazioni intrise di buonismo servano solo a scaricare le coscienze, a liberare gli animi da briciole insulse di ignavia, ravvedendo nell’adozione di un bambino ciò che semplicisticamente e ottusamente viene ritenuta una buona azione, ignorando la portata offensiva di questo accostamento per chi vive tutto questo in prima persona nella propria vita. 
 
Chi sceglie di diventare genitore per adozione arriva a tale determinazione attraverso un percorso personale di dialogo con se stesso, dove metti a nudo la tua anima senza infingimenti e trucchi. Ti interroghi su te stesso, sulla tua capacità di amare chi è diverso, “più diverso” da te, scoprendo con sollievo e meraviglia che ogni genitore (genetico o adottivo) ama necessariamente un ALTRO da sé e se riesce ad averne consapevolezza vive meglio il suo ruolo e “libera” il figlio da aspettative e proiezioni. L’uso del possessivo (MIO figlio) non è necessariamente una cosa sana per la creatura che accompagneremo nella crescita, bisogna alleggerirlo, relativizzarlo.
 
Insomma tutto ciò ha veramente molto poco in comune con un gesto da filantropi e, si sa, con le buone azioni non è comunque garantito il paradiso!
 
Forse l’esercizio di astenersi dal giudizio e conseguentemente praticare il silenzio, quello interiore in primis, ci predispone meglio ad accogliere e capire, facendo spazio dentro di noi.

 

 

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Data di pubblicazione: 
Sabato, Luglio 20, 2024

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