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La mia africa
Autore/i: Mariangela MontelliData: 15-03-2006
Argomento: Paesi
Ancora oggi, dopo mesi dal mio primo soggiorno in Burkina Faso, mi accorgo che quel che dico è solo fumo. Le mille e mille emozioni nel mio cuore, le paure, le attese, i sogni….non riescono a lasciarmi e finire vergati su un bianco foglio.
Chiudo gli occhi e lascio scorrere i ricordi, come un film a ritroso....
È il cinque agosto, il giorno successivo alla festa dell’Indipendenza.
Il caldo è soffocante, nonostante la stagione delle piogge, non piove.
La giornata festiva è trascorsa lenta, nei soliti passi, la spesa, il riposo pomeridiano, qualche pagina di un libro.
La sera, un invito a gustare un piatto locale. È tardo pomeriggio quando il mio “Co-co-coo!” annuncia ai padroni di casa che sono arrivata.
Sono qui da ora perché spero, guardando una donna cucinare, di poter carpire i segreti di quest’atmosfera, come se fosse un cibo, un nutrimento.
La dolcezza dell’ospitalità di M. è toccante.
Sedute davanti casa, compaiono uno alla volta gli attrezzi del mestiere, il fornello a carbone, la marmitte, il mortaio di legno con il lungo pestello, perfino una graticola che viene dall’Italia!
Il tempo scorre lieve, scandito dalle voci ormai amiche di questa famiglia: la cena è pronta. Si mangia in allegria.
Un abbraccio di ovatta mi prende, mi sento come sdoppiata, sono io e non sono me stessa, vedo il mio sguardo posarsi lento.
(Ancora non sapevo che questa sensazione era destinata ad acuirsi fino all’estremo, fino a darmi l’impressione di non avere più pelle e confini)
Il vano della porta inquadra farfalle che si inseguono in volo.
Una chioccia con i suoi pulcini è di passaggio. Qui, in città, in una capitale di quasi due milioni di anime. Sorrido.
Poco più in là, fuori dalla missione, un’umanità frenetica vive la strada: venditori di merce di ogni tipo, calzolai, orologiai, pescivendoli.
E le immancabili, ubique donne che friggono golose frittelle, arrostiscono il mais o dispongono le arachidi in contenitori di decrescente misura.
Ciascuno di loro è un essere umano con i propri impegni, la propria (sempre numerosissima!) famiglia, i propri dolori e le proprie stanchezze.
Nonostante la scenografia vivace di foglie verdissime dei manghi, di rossa terra, di pagne sgargianti, di sguardi intensi, a ben guardare la vita durissima di questi uomini e donne non può, in nessun modo, portare l’etichetta del “buon tempo antico”, né quella della “felicità che si accontenta di poco”.
Sono, queste, ipocrite consolazioni autoassolutorie di noi europei, in ogni caso ricchi.
Personalmente non ci trovo nulla di commovente nel vedere i bambini che, la sera, tentano di pescare qualcosa nel fiume denso di rifiuti e acqua semistagnante (ma le ninfee! E il giacinto d’acqua mai visto fiorito!) perché possa esserci qualcosa nel piatto. Trovo che sia indecente che, per essere curato in ospedale, debba comprarti i farmaci da solo.
Trovo che gridi giustizia questa umanità che campa di fatica immane e dignità.
Per non parlare della moltitudine di bambini in ogni dove, stupiti, attratti e talvolta spaventati nel vedermi. Una bimba mi dà la mano nel consueto segno di saluto e poi la ritrae, guardandola stupita perché il mio colore bianco non le è rimasto sul palmo. Sorrido.
È determinante per me l’esperienza di essere, per una volta, la visibilmente “diversa”.
La pellicola si avvolge rapida, due mesi dopo.
Sono di nuovo a Ouaga, strana la sensazione di ora: prima mi sentivo porosa come una spugna, desiderosa di assorbire tutto l’assorbibile. Ora ho l’impressione che la mia pelle, segno fin troppo distinguibile, sia divenuta una fluida membrana. Mi pare sia questo mondo ad assorbire me.
E, forse per la prima volta, mi sento “a casa”. Ed è ancor più strano se penso che qui vivo in una casa tradizionale, mangio con le mani, prendo l’acqua da un canari e mi faccio la doccia con il secchio.
Eppure mi sento a casa.
Il paesaggio è cambiato, i colori colpiscono: il vere inspessito delle chiome dei karité lungo le strade, il bruno intenso delle gonfie spighe del sorgo, il giallo dell’erba che comincia a seccare.
Gli abitanti del quartiere ormai mi conoscono, e io conosco loro: il panettiere, il lavandaio che in un buco senza finestre lava i panni a mano e li stira con un vecchio ferro con le braci dentro, i vicini di casa dei miei ospiti, che premurosi e festosi mi hanno accolto anche stavolta, i bambini che, dapprima intimoriti, ormai mi trattano con familiarità.
A occhi chiusi posso vedere i loro volti…
Respirando a fondo, sentire gli odori…
…forse chi qui mi dice di essere ancora in attesa del mio ritorno, ha delle ragioni per farlo.
Chiudo gli occhi e lascio scorrere i ricordi, come un film a ritroso....
È il cinque agosto, il giorno successivo alla festa dell’Indipendenza.
Il caldo è soffocante, nonostante la stagione delle piogge, non piove.
La giornata festiva è trascorsa lenta, nei soliti passi, la spesa, il riposo pomeridiano, qualche pagina di un libro.
La sera, un invito a gustare un piatto locale. È tardo pomeriggio quando il mio “Co-co-coo!” annuncia ai padroni di casa che sono arrivata.
Sono qui da ora perché spero, guardando una donna cucinare, di poter carpire i segreti di quest’atmosfera, come se fosse un cibo, un nutrimento.
La dolcezza dell’ospitalità di M. è toccante.
Sedute davanti casa, compaiono uno alla volta gli attrezzi del mestiere, il fornello a carbone, la marmitte, il mortaio di legno con il lungo pestello, perfino una graticola che viene dall’Italia!
Il tempo scorre lieve, scandito dalle voci ormai amiche di questa famiglia: la cena è pronta. Si mangia in allegria.
Un abbraccio di ovatta mi prende, mi sento come sdoppiata, sono io e non sono me stessa, vedo il mio sguardo posarsi lento.
(Ancora non sapevo che questa sensazione era destinata ad acuirsi fino all’estremo, fino a darmi l’impressione di non avere più pelle e confini)
Il vano della porta inquadra farfalle che si inseguono in volo.
Una chioccia con i suoi pulcini è di passaggio. Qui, in città, in una capitale di quasi due milioni di anime. Sorrido.
Poco più in là, fuori dalla missione, un’umanità frenetica vive la strada: venditori di merce di ogni tipo, calzolai, orologiai, pescivendoli.
E le immancabili, ubique donne che friggono golose frittelle, arrostiscono il mais o dispongono le arachidi in contenitori di decrescente misura.
Ciascuno di loro è un essere umano con i propri impegni, la propria (sempre numerosissima!) famiglia, i propri dolori e le proprie stanchezze.
Nonostante la scenografia vivace di foglie verdissime dei manghi, di rossa terra, di pagne sgargianti, di sguardi intensi, a ben guardare la vita durissima di questi uomini e donne non può, in nessun modo, portare l’etichetta del “buon tempo antico”, né quella della “felicità che si accontenta di poco”.
Sono, queste, ipocrite consolazioni autoassolutorie di noi europei, in ogni caso ricchi.
Personalmente non ci trovo nulla di commovente nel vedere i bambini che, la sera, tentano di pescare qualcosa nel fiume denso di rifiuti e acqua semistagnante (ma le ninfee! E il giacinto d’acqua mai visto fiorito!) perché possa esserci qualcosa nel piatto. Trovo che sia indecente che, per essere curato in ospedale, debba comprarti i farmaci da solo.
Trovo che gridi giustizia questa umanità che campa di fatica immane e dignità.
Per non parlare della moltitudine di bambini in ogni dove, stupiti, attratti e talvolta spaventati nel vedermi. Una bimba mi dà la mano nel consueto segno di saluto e poi la ritrae, guardandola stupita perché il mio colore bianco non le è rimasto sul palmo. Sorrido.
È determinante per me l’esperienza di essere, per una volta, la visibilmente “diversa”.
La pellicola si avvolge rapida, due mesi dopo.
Sono di nuovo a Ouaga, strana la sensazione di ora: prima mi sentivo porosa come una spugna, desiderosa di assorbire tutto l’assorbibile. Ora ho l’impressione che la mia pelle, segno fin troppo distinguibile, sia divenuta una fluida membrana. Mi pare sia questo mondo ad assorbire me.
E, forse per la prima volta, mi sento “a casa”. Ed è ancor più strano se penso che qui vivo in una casa tradizionale, mangio con le mani, prendo l’acqua da un canari e mi faccio la doccia con il secchio.
Eppure mi sento a casa.
Il paesaggio è cambiato, i colori colpiscono: il vere inspessito delle chiome dei karité lungo le strade, il bruno intenso delle gonfie spighe del sorgo, il giallo dell’erba che comincia a seccare.
Gli abitanti del quartiere ormai mi conoscono, e io conosco loro: il panettiere, il lavandaio che in un buco senza finestre lava i panni a mano e li stira con un vecchio ferro con le braci dentro, i vicini di casa dei miei ospiti, che premurosi e festosi mi hanno accolto anche stavolta, i bambini che, dapprima intimoriti, ormai mi trattano con familiarità.
A occhi chiusi posso vedere i loro volti…
Respirando a fondo, sentire gli odori…
…forse chi qui mi dice di essere ancora in attesa del mio ritorno, ha delle ragioni per farlo.