GSD Informa
Articolo
Risponde l'associazione MOL
Autore/i: Donatella Caione e Renata IanigroData: 15-02-2006
Argomento: Sociale e legale
A che livello e con quali interlocutori, dovrebbero essere attivate eventuali nuove strategie davanti alla realtà dell’infanzia in stato di abbandono?
E l’adozione nazionale ed internazionale che ruolo hanno?
In un mondo, quale è quello di quest'inizio di secolo, in cui è sempre più grande il divario fra paesi ricchi e paesi
poveri, in cui il terzo mondo diventa ormai il quarto mondo, purtroppo chi fa le spese maggiori di quest'enorme
divario, che pare davvero essere incolmabile per quanto è profondo e radicato, sono i bambini. Bambini trascurati, bambini anche amati da genitori che però non hanno i mezzi per sottrarli alla denutrizione, bambini abbandonati e bambini che vivono una condizione anche peggiore dell'abbandono: lo sfruttamento.
Dal rapporto UNICEF "La Condizione dell'infanzia nel mondo 2006 - Esclusi e invisibili": "50 milioni di piccoli che non vengono neppure registrati all'anagrafe, con la conseguente esclusione da ogni forma di controllo e di assistenza, 171 milioni di bambini impiegati in lavori ad alto rischio, 2 milioni sfruttati dall'industria del sesso, oltre 100 milioni che non hanno mai visto un'aula scolastica, centinaia di migliaia di vittime di catastrofi naturali o guerre sconosciute (...)".
Dei due miliardi di bambini e adolescenti (da 0 a 18 anni) che ci sono nel mondo, nove su dieci, l'87%, vivono nei paesi in via di sviluppo (ma quale sviluppo? non sarà eccessivamente utopistico e anche un po' semplicistico chiamarli ancora così?)
Insomma, una tale emergenza che, sinceramente, pare davvero ridicolo sperare di voler affrontare proponendo per Natale l'acquisto di biglietti di auguri o un sostegno a distanza o raccogliendo qualche moneta tra i passeggeri degli aerei. Con tutta la buona volontà non è un problema che si può risolvere in maniera seria affidandosi al buon cuore di pochi, ma è una vera e propria emergenza che deve essere affrontata dai governi e dalle loro organizzazioni (Comunità Europea, G7, Onu...) in maniera concreta e fattiva, magari cominciando a combattere lo sfruttamento, spesso messo in atto proprio da aziende di paesi leader!
A nulla è servito elaborare la giustissima Convenzione sui diritti dell'infanzia se non si fa nulla, in concreto, perché diventi un impegno reale e concreto.
Seppure costituisca un principio ormai acquisito che al minore va riconosciuto, in via prioritaria, il diritto di vivere e crescere all’interno della famiglia, tale obiettivo sembra sempre più difficile da raggiungere e da realizzare, spesso per ragioni inspiegabili e non razionalmente giustificabili.
Inoltre, se consideriamo la realtà del disagio minorile in ambito nazionale, possiamo constatare che la realtà della infanzia in stato di abbandono non ha confini e non è enucleabile all’interno di questo o quel Paese in via di sviluppo. Si tratta di un fenomeno trasversale che abbraccia, in maniera molto diversa, ogni società, evoluta, o no, ogni mondo, primo, secondo o quarto, e che si presenta, in maniera sorprendente, anche in situazioni di solo apparente normalità. L’infanzia in stato di abbandono è un fenomeno relazionale: intanto esiste in quanto, di fronte a quei bambini soli, denutriti, disagiati, malati, incapaci di crescere o finanche di guardarsi dentro, ci sono degli adulti che non si sono impegnati fino in fondo, che non sono stati in grado o non hanno potuto amarli, che non ne hanno sentito la responsabilità. Ecco che l’infanzia abbandonata non può considerarsi né apparire nella coscienza collettiva come un fenomeno a sé stante, isolato, o emarginato, e nemmeno può restare confinato tra quei dati statistici che si leggono sui fogli di giornale, di tanto in tanto. Ogni persona che sappia guardare oltre i limiti del proprio presente, deve essere in grado di comprendere che i nostri figli non ci appartengono come una nostra eredità, ma sono il futuro che si apre di fronte ai nostri occhi, la garanzia della nostra stessa sopravvivenza, i naturali protagonisti, una volta divenuti adulti, del mondo che verrà. Sicché una strategia di contrasto all’abbandono dei minori non può che passare, innanzitutto, dalle coscienze personali di ognuno di noi, dai nostri occhi svegli e vigili, dal nostro cuore aperto e tenero verso un bambino che non può fare a meno di noi, lungi da ogni motivo di distrazione, che non potrà mai essere così importante da non consentirci di guardare oltre.
L’infanzia in stato di abbandono è, quindi, un problema prima sociale e poi politico. È un impegno che deve passare attraverso la coscienza collettiva, la capacità di una società di farsi carico delle situazioni di crisi della famiglia. La dimensione esistenziale del bambino solo o abbandonato può trovare soluzione, prioritariamente, all’interno della famiglia, che è l’unico contesto in grado di soddisfare ogni sua esigenza, e di dargli la possibilità di crescere in maniera equilibrata, diventando un adulto sereno e responsabile.
I problemi nascono quando la famiglia non c’è, oppure esiste ma, per i più svariati motivi, non è in grado di funzionare e pertanto non è funzionale ai bisogni del bambino. E una famiglia disfunzionale può essere delle volte più pregiudizievole per un bambino rispetto a una famiglia che non c’è, o che non è mai esistita.
Pertanto, ogni strategia che si proponga di fronteggiare la realtà o il disagio dei bambini in stato di abbandono, non potrà che passare attraverso le famiglie, e porre in essere moduli operativi che gravitino, comunque, intorno alle famiglie. Se quindi la famiglia è il fulcro attorno al quale possono trovare attuazione programmi e interventi da parte degli organi istituzionali, la politica della infanzia non può che garantire, in prima battuta, sostegno, aiuto, e assistenza alle famiglie, specie quelle in stato di bisogno.
All’interno dei programmi di intervento a favore delle famiglie, l’adozione occupa, senza dubbio, un posto privilegiato, quale strumento formidabile per permettere di avere una famiglia ai bambini che ne sono privi.
L’adozione, da alcuni decenni a questa parte, si è venuta via via trasformando, configurandosi come istituto sempre più strumentale al riconoscimento e alla attuazione del superiore interesse del minore. Attraverso l’attività di mediazione degli operatori professionali l’adozione viene vissuta sempre più come scelta, e richiede un percorso che non può partire senza l’acquisizione delle conoscenze necessarie, per accogliere come proprio un figlio generato da altri. Gli aspiranti genitori adottivi, sin dalla prima scelta, possono avere la opportunità di approfondire, attraverso l’ausilio del personale specializzato, la conoscenza della realtà dei bambini abbandonati, e le conseguenze traumatiche dell’abbandono che si troveranno a fronteggiare insieme al bambino una volta arrivato nella nuova famiglia. In questo processo di evoluzione, l’adozione ha rivelato la sua duttilità, la sua apertura verso nuovi modelli familiari, a dimostrazione del fatto che la famiglia non è un contenitore statico, preconfezionato secondo schemi rigidi e immodificabili, seguendo inutili e quanto mai pericolosi pregiudizi, ma presenta una sua naturale propensione a evolversi in concomitanza e con la stessa rapidità delle trasformazioni sociali in atto. La famiglia adottiva diventa quindi, non solo attraverso l’adozione internazionale, una famiglia multietnica e interculturale, e si va aprendo a una migliore consapevolezza del proprio ruolo attraverso la valorizzazione e la condivisione della diversità. Su questo versante grandi passi sono stati compiuti in avanti, ma sono ancora da compiersi, verso l’acquisizione di una maggiore consapevolezza da parte dei genitori adottivi circa il proprio ruolo e le risorse che si richiedono per poter adottare un figlio. Bisogna sempre aver presente che tra questi bambini non ci sono solo i bambini abbandonati alla nascita e non riconosciuti, o i bambini stranieri che vengono da lontano, ma ci sono anche i bambini che, per ragioni legate alle loro condizioni di salute, o per motivi legati all’età, sono da tempo istituzionalizzati e vivono in assenza di valide prospettive per il futuro. Della sorte dei bambini italiani da tempo istituzionalizzati, presto ci si dovrà far carico in vista della chiusura degli Istituti prevista al 31.12.2006.
Ci si dovrà chiedere se le case-famiglia in via di istituzione potranno costituire una valida alternativa, in assenza di famiglie disposte ad accoglierli.
Ci si dovrà interrogare sulle soluzioni opportune da adottare nei confronti di quei bambini istituzionalizzati c.d. del limbo che non si trovino in condizioni di adottabilità e che non siano comunque in condizioni di rientrare nelle rispettive famiglie di origine. Sul versante dell’adozione nazionale l’imminente chiusura degli istituti richiederà sicuramente un certo impegno da parte delle istituzioni preposte nella verificazione di alternative che non si traducano in una riproposizione delle vecchie formule che la scienza psicologica, prima, e la legge poi hanno inteso superare. Sul versante dell’adozione internazionale, occorre considerare che si tratta ormai di un fenomeno in progressiva espansione, con grosse potenzialità di crescita, ma che procede allo stato in assenza di una valida politica di intervento da parte delle autorità istituzionalmente deputate.
A fronte dell’elevata domanda di adozione internazionale da parte delle coppie italiane non si è riscontrato un proporzionale impegno da parte delle istituzioni coinvolte rispetto alla apertura di nuove frontiere, necessaria in funzione della sussidiarietà dell’adozione internazionale. Quest’ultima, come noto, non può che rappresentare per i Paesi in via di sviluppo una soluzione temporanea che consenta di superare, nel tempo, grazie all’aiuto dei Paesi adottanti, le difficoltà e i disagi in cui versa l’infanzia.
Per tale ragione non è possibile né auspicabile che la domanda di adozione internazionale, decisamente elevata nel nostro Stato, si rivolga sempre e sistematicamente verso gli stessi Paesi, nella misura in cui l’adozione internazionale, quale strumento di sussidiarietà, dovrebbe avere senza dubbio un ruolo transitorio e definito nel tempo per ogni Paese in via di sviluppo. L’apertura di nuove frontiere per l’adozione internazionale non può avvenire indipendentemente dall’iniziativa e l’intervento delle Autorità statali preposte, né può essere rimandata all’attività di mediazione svolta dal singolo ente di intermediazione che non può avere le competenze per avviare un dialogo istituzionale. Una politica di intervento e collaborazione dello Stato nei rapporti con gli Stati in via di sviluppo si impone altresì per ineludibili esigenze di garanzie legate al corretto assetto delle procedure da instaurarsi. Non si può trascurare, infatti, che non sempre i Paesi in via di sviluppo, che avviano i propri bambini in adozione internazionale, sono parti o hanno sottoscritto le Convenzioni internazionali a tutela dei diritti dei minori, e non sempre sono dotati di leggi interne che garantiscano a sufficienza i diritti dei minori. Per questa ragione l’intervento dello Stato, che può avvenire attraverso la stipula di protocolli di intesa o di accordi bilaterali, consentirebbe che l’adozione internazionale avvenga attraverso procedure garantite, e che gli enti possano collaborare con i Paesi interessati a parità di condizioni. Certamente, se queste sono le strategie auspicabili di sostegno delle famiglie desiderose di adottare all’estero, occorre tuttavia considerare che l’adozione internazionale sicuramente è uno strumento che va incoraggiato, semplificato, sostenuto ma certamente non può essere il rimedio per risolvere un problema sociale di tale immensa portata, così come non è un rimedio per i tanti adulti disperati che arrivano con ogni mezzo nei paesi ricchi nella speranza di trovare lavoro, una vita migliore.
Adulti e bambini hanno il diritto di essere aiutati a lavorare e a crescere nel loro paese, nella loro cultura, laddove hanno le loro radici. D'altronde è questo lo spirito della Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993 e della legge italiana: il principio di sussidiarietà dell'adozione internazionale: l'adozione deve essere l'ultima strada da percorrere per aiutare un bambino, l'adozione internazionale deve potersi realizzare quando non ci sia stata la possibilità di aiutare il bambino all'interno della propria famiglia e del proprio paese di origine.
Molto si è fatto negli ultimi 20 anni, grazie anche all'operato di tante storiche associazioni! Ma è certamente indispensabile aumentare la diffusione di una cultura sull'adozione, nell’ottica del superamento dei pregiudizi, e dei tanti luoghi comuni ancora diffusi, e talvolta incoraggiati da una certa stampa d’opinione. E come associazione ce ne siamo resi conto ogni qual volta siamo intervenuti contro la diffusione di notizie, iniziative o semplici slogan che a nostro parere risultavano fuorvianti per l’opinione pubblica, tradendo il profondo spirito dell’adozione. Ce ne siamo occupati, per esempio, nella problematica della procreazione assistita, laddove l’adozione è stata spacciata quale mera alternativa nei confronti delle coppie non in grado di concepire. E questa impostazione è stata fatta propria da una legge dello Stato (ricordiamo che la legge 40 affida al ginecologo il compito di informare la coppia infertile della possibilità di adottare!!!), nonché da altre iniziative di riforma dell’adozione che presuppongono che ogni coppia possa essere pronta, matura, capace per affrontare il percorso adottivo, e che l'adozione si riduca al desiderio di due persone di avere un bambino e non invece la profonda convinzione di voler offrire a un bambino solo una famiglia!
E l’adozione nazionale ed internazionale che ruolo hanno?
In un mondo, quale è quello di quest'inizio di secolo, in cui è sempre più grande il divario fra paesi ricchi e paesi
poveri, in cui il terzo mondo diventa ormai il quarto mondo, purtroppo chi fa le spese maggiori di quest'enorme
divario, che pare davvero essere incolmabile per quanto è profondo e radicato, sono i bambini. Bambini trascurati, bambini anche amati da genitori che però non hanno i mezzi per sottrarli alla denutrizione, bambini abbandonati e bambini che vivono una condizione anche peggiore dell'abbandono: lo sfruttamento.
Dal rapporto UNICEF "La Condizione dell'infanzia nel mondo 2006 - Esclusi e invisibili": "50 milioni di piccoli che non vengono neppure registrati all'anagrafe, con la conseguente esclusione da ogni forma di controllo e di assistenza, 171 milioni di bambini impiegati in lavori ad alto rischio, 2 milioni sfruttati dall'industria del sesso, oltre 100 milioni che non hanno mai visto un'aula scolastica, centinaia di migliaia di vittime di catastrofi naturali o guerre sconosciute (...)".
Dei due miliardi di bambini e adolescenti (da 0 a 18 anni) che ci sono nel mondo, nove su dieci, l'87%, vivono nei paesi in via di sviluppo (ma quale sviluppo? non sarà eccessivamente utopistico e anche un po' semplicistico chiamarli ancora così?)
Insomma, una tale emergenza che, sinceramente, pare davvero ridicolo sperare di voler affrontare proponendo per Natale l'acquisto di biglietti di auguri o un sostegno a distanza o raccogliendo qualche moneta tra i passeggeri degli aerei. Con tutta la buona volontà non è un problema che si può risolvere in maniera seria affidandosi al buon cuore di pochi, ma è una vera e propria emergenza che deve essere affrontata dai governi e dalle loro organizzazioni (Comunità Europea, G7, Onu...) in maniera concreta e fattiva, magari cominciando a combattere lo sfruttamento, spesso messo in atto proprio da aziende di paesi leader!
A nulla è servito elaborare la giustissima Convenzione sui diritti dell'infanzia se non si fa nulla, in concreto, perché diventi un impegno reale e concreto.
Seppure costituisca un principio ormai acquisito che al minore va riconosciuto, in via prioritaria, il diritto di vivere e crescere all’interno della famiglia, tale obiettivo sembra sempre più difficile da raggiungere e da realizzare, spesso per ragioni inspiegabili e non razionalmente giustificabili.
Inoltre, se consideriamo la realtà del disagio minorile in ambito nazionale, possiamo constatare che la realtà della infanzia in stato di abbandono non ha confini e non è enucleabile all’interno di questo o quel Paese in via di sviluppo. Si tratta di un fenomeno trasversale che abbraccia, in maniera molto diversa, ogni società, evoluta, o no, ogni mondo, primo, secondo o quarto, e che si presenta, in maniera sorprendente, anche in situazioni di solo apparente normalità. L’infanzia in stato di abbandono è un fenomeno relazionale: intanto esiste in quanto, di fronte a quei bambini soli, denutriti, disagiati, malati, incapaci di crescere o finanche di guardarsi dentro, ci sono degli adulti che non si sono impegnati fino in fondo, che non sono stati in grado o non hanno potuto amarli, che non ne hanno sentito la responsabilità. Ecco che l’infanzia abbandonata non può considerarsi né apparire nella coscienza collettiva come un fenomeno a sé stante, isolato, o emarginato, e nemmeno può restare confinato tra quei dati statistici che si leggono sui fogli di giornale, di tanto in tanto. Ogni persona che sappia guardare oltre i limiti del proprio presente, deve essere in grado di comprendere che i nostri figli non ci appartengono come una nostra eredità, ma sono il futuro che si apre di fronte ai nostri occhi, la garanzia della nostra stessa sopravvivenza, i naturali protagonisti, una volta divenuti adulti, del mondo che verrà. Sicché una strategia di contrasto all’abbandono dei minori non può che passare, innanzitutto, dalle coscienze personali di ognuno di noi, dai nostri occhi svegli e vigili, dal nostro cuore aperto e tenero verso un bambino che non può fare a meno di noi, lungi da ogni motivo di distrazione, che non potrà mai essere così importante da non consentirci di guardare oltre.
L’infanzia in stato di abbandono è, quindi, un problema prima sociale e poi politico. È un impegno che deve passare attraverso la coscienza collettiva, la capacità di una società di farsi carico delle situazioni di crisi della famiglia. La dimensione esistenziale del bambino solo o abbandonato può trovare soluzione, prioritariamente, all’interno della famiglia, che è l’unico contesto in grado di soddisfare ogni sua esigenza, e di dargli la possibilità di crescere in maniera equilibrata, diventando un adulto sereno e responsabile.
I problemi nascono quando la famiglia non c’è, oppure esiste ma, per i più svariati motivi, non è in grado di funzionare e pertanto non è funzionale ai bisogni del bambino. E una famiglia disfunzionale può essere delle volte più pregiudizievole per un bambino rispetto a una famiglia che non c’è, o che non è mai esistita.
Pertanto, ogni strategia che si proponga di fronteggiare la realtà o il disagio dei bambini in stato di abbandono, non potrà che passare attraverso le famiglie, e porre in essere moduli operativi che gravitino, comunque, intorno alle famiglie. Se quindi la famiglia è il fulcro attorno al quale possono trovare attuazione programmi e interventi da parte degli organi istituzionali, la politica della infanzia non può che garantire, in prima battuta, sostegno, aiuto, e assistenza alle famiglie, specie quelle in stato di bisogno.
All’interno dei programmi di intervento a favore delle famiglie, l’adozione occupa, senza dubbio, un posto privilegiato, quale strumento formidabile per permettere di avere una famiglia ai bambini che ne sono privi.
L’adozione, da alcuni decenni a questa parte, si è venuta via via trasformando, configurandosi come istituto sempre più strumentale al riconoscimento e alla attuazione del superiore interesse del minore. Attraverso l’attività di mediazione degli operatori professionali l’adozione viene vissuta sempre più come scelta, e richiede un percorso che non può partire senza l’acquisizione delle conoscenze necessarie, per accogliere come proprio un figlio generato da altri. Gli aspiranti genitori adottivi, sin dalla prima scelta, possono avere la opportunità di approfondire, attraverso l’ausilio del personale specializzato, la conoscenza della realtà dei bambini abbandonati, e le conseguenze traumatiche dell’abbandono che si troveranno a fronteggiare insieme al bambino una volta arrivato nella nuova famiglia. In questo processo di evoluzione, l’adozione ha rivelato la sua duttilità, la sua apertura verso nuovi modelli familiari, a dimostrazione del fatto che la famiglia non è un contenitore statico, preconfezionato secondo schemi rigidi e immodificabili, seguendo inutili e quanto mai pericolosi pregiudizi, ma presenta una sua naturale propensione a evolversi in concomitanza e con la stessa rapidità delle trasformazioni sociali in atto. La famiglia adottiva diventa quindi, non solo attraverso l’adozione internazionale, una famiglia multietnica e interculturale, e si va aprendo a una migliore consapevolezza del proprio ruolo attraverso la valorizzazione e la condivisione della diversità. Su questo versante grandi passi sono stati compiuti in avanti, ma sono ancora da compiersi, verso l’acquisizione di una maggiore consapevolezza da parte dei genitori adottivi circa il proprio ruolo e le risorse che si richiedono per poter adottare un figlio. Bisogna sempre aver presente che tra questi bambini non ci sono solo i bambini abbandonati alla nascita e non riconosciuti, o i bambini stranieri che vengono da lontano, ma ci sono anche i bambini che, per ragioni legate alle loro condizioni di salute, o per motivi legati all’età, sono da tempo istituzionalizzati e vivono in assenza di valide prospettive per il futuro. Della sorte dei bambini italiani da tempo istituzionalizzati, presto ci si dovrà far carico in vista della chiusura degli Istituti prevista al 31.12.2006.
Ci si dovrà chiedere se le case-famiglia in via di istituzione potranno costituire una valida alternativa, in assenza di famiglie disposte ad accoglierli.
Ci si dovrà interrogare sulle soluzioni opportune da adottare nei confronti di quei bambini istituzionalizzati c.d. del limbo che non si trovino in condizioni di adottabilità e che non siano comunque in condizioni di rientrare nelle rispettive famiglie di origine. Sul versante dell’adozione nazionale l’imminente chiusura degli istituti richiederà sicuramente un certo impegno da parte delle istituzioni preposte nella verificazione di alternative che non si traducano in una riproposizione delle vecchie formule che la scienza psicologica, prima, e la legge poi hanno inteso superare. Sul versante dell’adozione internazionale, occorre considerare che si tratta ormai di un fenomeno in progressiva espansione, con grosse potenzialità di crescita, ma che procede allo stato in assenza di una valida politica di intervento da parte delle autorità istituzionalmente deputate.
A fronte dell’elevata domanda di adozione internazionale da parte delle coppie italiane non si è riscontrato un proporzionale impegno da parte delle istituzioni coinvolte rispetto alla apertura di nuove frontiere, necessaria in funzione della sussidiarietà dell’adozione internazionale. Quest’ultima, come noto, non può che rappresentare per i Paesi in via di sviluppo una soluzione temporanea che consenta di superare, nel tempo, grazie all’aiuto dei Paesi adottanti, le difficoltà e i disagi in cui versa l’infanzia.
Per tale ragione non è possibile né auspicabile che la domanda di adozione internazionale, decisamente elevata nel nostro Stato, si rivolga sempre e sistematicamente verso gli stessi Paesi, nella misura in cui l’adozione internazionale, quale strumento di sussidiarietà, dovrebbe avere senza dubbio un ruolo transitorio e definito nel tempo per ogni Paese in via di sviluppo. L’apertura di nuove frontiere per l’adozione internazionale non può avvenire indipendentemente dall’iniziativa e l’intervento delle Autorità statali preposte, né può essere rimandata all’attività di mediazione svolta dal singolo ente di intermediazione che non può avere le competenze per avviare un dialogo istituzionale. Una politica di intervento e collaborazione dello Stato nei rapporti con gli Stati in via di sviluppo si impone altresì per ineludibili esigenze di garanzie legate al corretto assetto delle procedure da instaurarsi. Non si può trascurare, infatti, che non sempre i Paesi in via di sviluppo, che avviano i propri bambini in adozione internazionale, sono parti o hanno sottoscritto le Convenzioni internazionali a tutela dei diritti dei minori, e non sempre sono dotati di leggi interne che garantiscano a sufficienza i diritti dei minori. Per questa ragione l’intervento dello Stato, che può avvenire attraverso la stipula di protocolli di intesa o di accordi bilaterali, consentirebbe che l’adozione internazionale avvenga attraverso procedure garantite, e che gli enti possano collaborare con i Paesi interessati a parità di condizioni. Certamente, se queste sono le strategie auspicabili di sostegno delle famiglie desiderose di adottare all’estero, occorre tuttavia considerare che l’adozione internazionale sicuramente è uno strumento che va incoraggiato, semplificato, sostenuto ma certamente non può essere il rimedio per risolvere un problema sociale di tale immensa portata, così come non è un rimedio per i tanti adulti disperati che arrivano con ogni mezzo nei paesi ricchi nella speranza di trovare lavoro, una vita migliore.
Adulti e bambini hanno il diritto di essere aiutati a lavorare e a crescere nel loro paese, nella loro cultura, laddove hanno le loro radici. D'altronde è questo lo spirito della Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993 e della legge italiana: il principio di sussidiarietà dell'adozione internazionale: l'adozione deve essere l'ultima strada da percorrere per aiutare un bambino, l'adozione internazionale deve potersi realizzare quando non ci sia stata la possibilità di aiutare il bambino all'interno della propria famiglia e del proprio paese di origine.
Molto si è fatto negli ultimi 20 anni, grazie anche all'operato di tante storiche associazioni! Ma è certamente indispensabile aumentare la diffusione di una cultura sull'adozione, nell’ottica del superamento dei pregiudizi, e dei tanti luoghi comuni ancora diffusi, e talvolta incoraggiati da una certa stampa d’opinione. E come associazione ce ne siamo resi conto ogni qual volta siamo intervenuti contro la diffusione di notizie, iniziative o semplici slogan che a nostro parere risultavano fuorvianti per l’opinione pubblica, tradendo il profondo spirito dell’adozione. Ce ne siamo occupati, per esempio, nella problematica della procreazione assistita, laddove l’adozione è stata spacciata quale mera alternativa nei confronti delle coppie non in grado di concepire. E questa impostazione è stata fatta propria da una legge dello Stato (ricordiamo che la legge 40 affida al ginecologo il compito di informare la coppia infertile della possibilità di adottare!!!), nonché da altre iniziative di riforma dell’adozione che presuppongono che ogni coppia possa essere pronta, matura, capace per affrontare il percorso adottivo, e che l'adozione si riduca al desiderio di due persone di avere un bambino e non invece la profonda convinzione di voler offrire a un bambino solo una famiglia!