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Una storia difficile - parte seconda

Autore/i:
Anna Guerrieri

Data: 21-01-2008
Argomento: La storia di una famiglia adottiva

Continua la storia del viaggio adottivo di Luisa. Nel secondo viaggio a San Pietroburgo avevano trovato la situazione del tutto cambiata. La stessa adozione veniva messa in discussione e il bambino (di otto anni) veniva interrogato davanti a loro per dare il suo consenso all’adozione. Le dirigenze dell’istituto e dei servizi chiedevano un incontro con la famiglia di origine. Riprendiamo da dove avevamo lasciato.

E dopo aver sentito l’opinione di A., veniste portati a parlare anche con sua zia?
Nel pomeriggio c’era l’incontro con la zia.
Anche in questo caso ci dissero che dipendeva tutto da noi. Scoprimmo così alcuni particolari della vita di nostro figlio che non ci erano stati rivelati al momento dell’abbinamento. Sotto i nostri occhi si andava delineando un’altra realtà e un altro bambino.
Guardavamo quella ragazza seduta di fronte a noi, sconvolti dalla somiglianza con il nipote. Era così giovane! Aveva un aspetto curato. Tremava. Mi sentivo sempre più distante, quasi “fuori me stessa”. Non ce la facevo a sopportare quello che stavo vivendo.
Disse si, lo disse piangendo, lo disse chiedendo di poter rivedere il nipote almeno una volta al mese.
Il giorno della sentenza scoprimmo, dalla relazione dell’assistente sociale dell’istituto, che la zia andava spesso a prendere il bambino per portarlo a casa con lei. Aveva una cameretta con tanti giocattoli e una bicicletta. Il bambino era molto affezionato a lei e la considerava come una mamma. Lei aveva chiesto informazioni per fare richiesta di affido al tribunale, ma non aveva mai presentato la domanda.
Il giorno della sentenza il giudice si irrigidì e chiese esplicitamente alle due assistenti sociali: “Se c’è una zia disposta ad occuparsi del bambino perché mai dovrebbe essere adottato?” Il dibattito continuò con toni sempre più accesi. Era in atto uno scontro. Ci guardavamo e sentivo le mani di mio marito che mi stringevano e mi facevano coraggio. L’interprete sempre più pallida che ci diceva che si stava mettendo male. Il giudice a un certo punto si alzò in piedi e iniziò ad urlare guardando verso di noi.
Sentivo il mio cuore battere all’impazzata e un solo pensiero: “Lo abbiamo perso. Non c’è più”. Un dolore sordo, lancinante. Volevo alzarmi. Volevo andare via, lontano da lì, con il mio dolore. Non sentivo più niente, solo il battito del mio cuore. Era come se mi fossi rifugiata in me, dentro di me. L’istituto aveva sbagliato tutto. La ricerca famigliare non convinceva il giudice. I nostri dati personali erano stati rivelati alla zia. In altre parole conoscevano i nostri nomi, cognomi, indirizzi, perfino i numeri telefonici e le professioni. Tre ore per una sentenza sofferta, difficile. Un’interruzione di altre due ore per acquisire ulteriori informazioni. Infine la decisione del giudice, le sue scuse per lo “spettacolo vergognoso” (così tradusse la nostra interprete) al quale avevamo assistito e gli auguri per la nostra nuova vita a tre. Eravamo stanchi e volevamo solo tornare al più presto a casa, sentire il calore degli affetti che ti proteggono e ti sostengono. La Russia ci aveva ferito. Sentivo un rancore sordo e profondo. Un rancore che iniziava ad avvelenare i miei sentimenti verso tutti i protagonisti di quella dolorosa vicenda. Chiamammo l’ente per chiedere spiegazione di quanto era accaduto. Non sapevano niente. Ci dissero che avrebbero chiesto informazioni. Dopo pochi giorni ricevemmo una telefonata dalla referente russa dell’ente. Si diceva dispiaciuta per quello che era successo. Ovviamente loro non avevano alcuna responsabilità dell’ accaduto. La responsabilità era tutta dell’istituto. Con tono di sottile ironia ci chiese: “Che volete fare? Pensate di denunciare l’istituto? Del resto anche da voi, in Italia, possono accadere queste cose”

Il terzo viaggio…
Ripartimmo per il terzo viaggio il 7 novembre e l’8 andammo a prendere il bambino. Rimanemmo a San Pietroburgo per 18 giorni. Avevamo scelto di stare in un B&B in pieno centro. Lo stesso nel quale avevamo alloggiato nei precedenti soggiorni. Insieme a noi c’erano altre 4 coppie, tutte del nostro stesso ente.
Eravamo sempre in giro per la città, a visitare musei e cattedrali. Abbiamo un bel ricordo di quei giorni, turbati però dalla “restituzione” di una bambina da parte di una coppia con la quale avevamo fatto amicizia fin dal primo viaggio. Fu un episodio molto doloroso per tutti.
Cercammo di aiutare, di sostenere queste persone. Ci sentivamo schiacciati da questa situazione così pesante e dolorosa. Eravamo molto stanchi ma prendemmo la bambina con noi, in attesa che si decidesse sulla modalità del suo rientro in istituto (così ci chiese l’ente). A e T. li vediamo insieme, ancora oggi, nelle tante foto e filmini che abbiamo fatto. Lei bimba bellissima e solare. Lui bimbo timido, silenzioso e scontroso. Lei che voleva noi e ci rincorreva per dirci: “Marco Luisa A. e T. Italia, insieme”
Quando finalmente partimmo per tornare a casa io ero ormai al limite delle mie forze e della mia volontà. Era come se qualcosa si fosse spento dentro me. Ero triste.
Tutti e tre eravamo tristi.
Il 24 ottobre ritornammo in Italia. Incontravamo grandi difficoltà a comunicare con il bambino. Lui non ci voleva sentire, non ci voleva vedere. Si copriva gli occhi e si chiudeva le orecchie quando gli parlavamo. Si nascondeva sotto una coperta. Il suo rifiuto era silenzioso ma potente. Se vedeva la televisione toglieva l’audio. Aveva paura, paura di noi, paura del nostro mondo, della nostra lingua. Dimenticai che per lui eravamo due perfetti sconosciuti. Lo dimenticai perché di fronte al suo rifiuto scoppiò, violento, rabbioso e velenoso il mio rifiuto, il mio rigetto. Persi di vista il bambino. Ero come una animale ferito che si voleva vendicare. Così mi sentivo. Iniziai a pensare al suo paese e alla sua gente con disprezzo, con rancore.
Iniziai a detestarlo. Lo sentivo estraneo. Non lo volevo vedere, non lo volevo sentire. Il bambino mi ricambiava con la stessa moneta. Mio marito cercava di “contenermi” e di “controllarmi”, capiva che stavo male, ma si preoccupava anche, e giustamente, del bambino.
Io avevo chiuso il mio cuore e non volevo più soffrire.
Quel bambino non mi apparteneva, era di un’altra e io lo avevo portato via. Mi sentivo “ladra di bambini”. Non mi riconoscevo, proprio io, la possibilità di pensarmi mamma accanto a quel bambino. Devo riconoscere che se oggi siamo qui, “famiglia molto sperimentale” ma con tanta voglia di stare insieme, è soprattutto merito di mio marito che seppe tenerci per mano entrambi, pur tenendoci distanti per evitare che ci facessimo troppo male. Anche il sostegno delle nostre famiglie fu fondamentale, perché riuscirono a far sentire accolto ed amato il bambino, in attesa che la mamma riuscisse a fare pace con i suoi fantasmi russi.
Determinante fu la scelta di rivolgerci a un centro di psicologi esperti in problematiche della famiglia in genere, di quelle adottive ed affidatarie, in particolare.
Fu così che azzerammo tutto e decidemmo di ricominciare.

E ora?
E ora ti posso dire che siamo dovuti ripartire da zero e andare avanti; ne avevamo un gran bisogno tutti e tre per "creare lo spazio" indispensabile ad accogliere questa nuova famiglia . Ecco, dopo un anno, si respira un'aria più rilassata, si sorride, si accettano le regole e le "sgridate". Il tempo aiuta, eccome se aiuta, ma da solo non basta..... non sarebbe bastato. Adesso guardo questa specie di "guerrafondaio" che parla di carri armati e bazooka e poi gioca con il telefono della Chicco..., questo tenero, buffo, simpatico bambino dall'età ancora indefinibile che ancora colora i suoi discorsi con intercalari russi, questo bambino che quando sorride è irresistibilmente bello con quelle fossette e mi stupisco.... perchè si appropria dei miei gesti, dei miei modi di dire, ama le stesse cose che amo io..... La strada è lunga, restano ancora alcune sensazioni, alcuni pensieri che a volte ci allontanano.
Non è ancora quell'amore tra madre e figlio, tra padre e figlio. Non c'è ancora nè da parte sua nè da parte nostra quella capacità di lasciarsi andare completamente, in modo spontaneo, naturale... Però di strada insieme ne abbiamo fatta e ci siamo liberati di molte paure e di molte ombre.
Insomma, come dice A., “Noi stiamo diventando una bella famiglia!”
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