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Chiusura degli Istituti

Autore/i: Michele Augurio

Data: 10-02-2007
Argomento: Sociale e legale

In questi ultimi anni ho sentito e letto spesso della chiusura degli istituti e della fatidica data del 31.12.2006 come del giorno della svolta.
Finalmente la data è stata superata e gli Istituti si stanno chiudendo o trasformandosi; l'era delle megastrutture è finita: degli istituti spersonalizzanti, con cameroni ampi e letti allineati sta finendo, lasciando spazio a interventi più mirati, su piccoli gruppi e con un rapporto adulti/bambini di gran lunga più funzionali dal punto di vista tecnico operativo. Dopo l'entrata in
vigore della legge n.149 del 2001, sono stato chiamato per riunioni o convegni, a parlare circa lo stato attuativo della nuova legge e spesso ho avvertito e sentito, intorno a me, posizioni ed affermazioni demagogiche e stereotipate, come ad esempio quella: "finalmente i ragazzi ospiti avrebbero trovato una sistemazione più accogliente". Ho cercato di porre, sempre con molta insistenza, a tutti i miei interlocutori, una riflessione sul perché nei tanto bistrattati Istituti vi erano ancora minori accolti. Cosa non aveva funzionato e quali erano le difficoltà che non avevano permesso un diverso collocamento sociale di questi ospiti. Chiedersi soprattutto il perché negli Istituti sono rimasti per molto tempo preadolescenti ed adolescenti e quali difficoltà si incontrano quotidianamente nel progettare interventi per queste fasce d'età. Gli Istituti sino ad oggi sono stati la valvola di sfogo per il collocamento di situazioni sociali più problematiche e difficili; hanno accolto minori che nessuno voleva e che nessuno nel tempo ha voluto. Sono rimasti in funzione poche realtà, soprattutto nel centro sud, proprio per la difficoltà di progettare ed individuare situazioni alternative per i minori ospiti, perché è nel comune senso del pensiero quotidiano che è più facile sperimentarsi nell'accoglienza di bambini più piccoli, lasciando ad altri il compito di misurarsi con la problematicità dell'adolescenza. Questa logica non si è del tutto modificata ancora oggi, ci sono poche realtà comunitarie, famiglie affidatarie ed adottive disposte a misurarsi con le problematiche preadolescenziali ed adolescenziali; disposte ad accogliere pienamente le tematiche dell'abbandono, parte integrante di un minore allontanato. Ed è giusto, per correttezza, riaffermare che nel limbo degli Istituti, questi minori sono rimasti a causa delle difficoltà incontrate nel reperire risorse più adeguate e significative per loro; a causa di una scelta, pur condivisibile, di misurarsi operativamente ed affettivamente con il disagio più lieve e non con quello più complesso. Se ripercorriamo le strade della tutela dell'infanzia e dell'adolescenza, scopriamo che già dal 1983, con la legge n. 184 si individuavano strategie diverse circa l'accoglienza del minore allontanato dal proprio contesto familiare. Cosa non ha funzionato? Cosa oggi è cambiato perché la politica dell'accoglienza possa realmente funzionare?
Finalmente con la chiusura degli Istituti, a mio avviso, abbiamo tolto un alibi a noi stessi operatori, volontari, magistrati e famiglie. Ora dobbiamo confrontarci con serenità e serietà sul cosa fare, come farlo e quali processi educativi e di recupero mettere in atto per un reale reinserimento sociale dei minori allontanati.
Sicuramente non partiamo da zero, poiché le esperienze di questi decenni hanno permesso una sperimentazione ed un radicamento nel territorio d'esperienze d'accoglienza e di recupero espressivo ed efficace. Esperienze che hanno posto il minore al centro di un sistema di servizi capace di farsi carico delle problematiche individuali e del contesto relazione in cui lui stesso vive. Ciò che mi preoccupa è l'area grigia che continua ad emergere nei dibattiti e nelle progettualità tecniche, che è quella di non leggere il dispositivo legislativo contenuto nella Legge 149/2001 nella sua globalità e nei suoi aspetti culturali. Mi riferisco, in particolare, al fatto che spesso ci dimentichiamo che la legge, non inizia dal secondo articolo, ove sono ubicati, in via cronologica, i servizi di accoglienza. La stessa contiene una enunciazione fortemente innovativa nell'art.1: " il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia", principio che modifica sostanzialmente il pur innovativo pensiero espresso nello stesso capitolo della Legge 184/83 che parlava genericamente di una famiglia. E' la scommessa più grande che trascuriamo ed emarginiamo nel momento in cui centralizziamo i nostri interventi su una cultura dei servizi e non su una reale cultura di tutela ell'infanzia. La famiglia d'origine sino ad ora è stata valutata, vissuta come entità emarginante e non come risorsa del minore. Abbiamo il dovere ed il compito di prevenire il disagio familiare e dove ciò non sia possibile, a causa di conflitti tra adulti, o di scarse capacità accuditive ed educative degli adulti, attivare tutti i percorsi di aiuto e di sostegno alla genitorialità.
Non intendo certo sottacere o nascondermi che esistono e permangono grosse situazioni di disagio familiare, tali da richiedere un allontanamento del minore dal proprio contesto familiare, ed è proprio sull'accoglienza di queste situazioni che è opportuno intervenire con servizi flessibili, capaci di rispettare i bisogni del bambino nel suo processo di crescita. La legge
cita una priorità d'intervento, elencando una serie di servizi che devono tendere a tutelare il minore nel suo bisogno di affettività e relazionalità con l'adulto. E' sicuramente una priorità che deve essere tenuta in considerazione, ma non dobbiamo dimenticare e sottacere che oltre ad una scaletta di interventi, dobbiamo costantemente tener presente e rispettare i tempi funzionali per la ricomposizione dei rapporti tra il minore ed i propri genitori. Un bambino non può vivere al di fuori del proprio contesto familiare per più di due anni, in questo tempo devono essere verificati tutti i progetti di aiuto, devono essere attivate tutte le risorse disponibili per permettere un rientro in famiglia ed ove non sia possibile tale rientro, il reperimento di una famiglia sostitutiva.
I minori non possono essere dimenticati nel limbo della progettualità; gli Istituti hanno continuato a vivere sino ad ora perché ci si è dimenticati delle persone che erano ospitate, degli adolescenti non voluti o sui quali nessuno ha voluto scommettere sulle capacità di recupero. Sbagliamo se pensiamo di sostituire le grosse strutture assistenziali con altre più piccole, senza l'attivazione di un processo culturale che trasformi la disponibilità dell'accogliere da assistenziale ad educativa relazionale. Il minore, l'adolescente ha bisogno di attenzione, di relazione di affettività, di essere capito nei suoi
bisogni e nelle sue capacità; ha bisogno di ambienti e spazi che tengano presente la sua individualità e le sue esigenze. Ha bisogno di un rapporto con l'adulto che sia accudente e non essere un numero all'interno di una struttura o una famiglia d'appoggio. Non si può pensare di soppiantare i vecchi istituti, con altre situazioni che pur essendo di dimensioni decisamente più piccole rischiano di riproporre la stessa disfunzionalità emotiva ed educativa. La comunità famiglia, di cui tanto si parla, se non inserita in regole e progettualità operativa si può trasformare in realtà non tutelante per il minore ospite. Non parlo di realtà astratte, ma di concretezza affrontata nella quotidianità del mio lavoro, quando mi sono imbattuto in comunità famiglie che ospitano minori, con realtà giuridiche molto diverse tra loro: figli naturali, minori affidati, minori ospiti della comunità famiglia. La logica della comunità famiglia è quella di un ambiente piccolo, a misura di bambino, con figure adulte simili al contesto familiare (due genitori) e tale risorsa non può essere depauperata con una "accoglienza selvaggia" poca attenta al progetto educativo individualizzato per singolo ospite. L'errore che non dobbiamo più commettere è dimenticarci i minori una volta collocati sia in famiglie affidatarie, che in strutture comunitarie; c'è bisogno del rispetto dei tempi stabiliti nei progetti personalizzati, perché il minore ha bisogno di sapere qual è il suo contesto affettivo definitivo e non restare nel limbo in attesa di eventi a volte impossibili. La permanenza del minore nell'affido etero familiare, nella comunità famiglia, nella comunità educativa non deve superare il periodo di due anni, tempo necessario per riequilibrare le dinamiche relazionali all'interno del proprio contesto familiare, o nei casi più eclatanti recuperarne un altro sostitutivo.
Se poniamo, come previsto dalla legge, il minore al centro del processo di crescita, dobbiamo partire dalla consapevolezza che i servizi elencati nel dispositivo legislativi non possono essere visti e considerati staccati tra loro, ma considerati nella
logica sinergica di un intervento di rete e di progettualità condivisa. Ad esempio l'esperienza dell'affido etero familiare, che rappresenta un forte impatto emotivo e relazionale non può  prescindere da una reale osservazione del minore attraverso il suo comportamento, la sua emotività, i suoi ricordi, il suo dolore, le sue risorse. E' impensabile proporre un'esperienza di affido attraverso un passaggio del minore dalla sua famiglia d'origine a quella affidataria, senza un periodo di osservazione e decantazione soprattutto per i ragazzi allontanati in modo coatto dal proprio contesto familiare. Un passaggio tout court da famiglia a famiglie è possibile solo nei casi di affido condiviso dai o dal genitore naturale; nelle altre realtà questo passaggio ha bisogno di attenzione, capacità tecniche di accompagnamento sia del minore che degli adulti referenti.Emerge sempre più l'esigenza di spostare il nostro dialogo dai servizi al minore, alla sua centralità, ai suoi bisogni e tra questi non possiamo dimenticarci che vi è innanzitutto il suo contesto familiare, che merita attenzione, rispetto e piena accoglienza.

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