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Articolo

Una storia difficile - parte prima

Autore/i:
Anna Guerrieri

Data: 19-12-2007
Argomento: La storia di una famiglia adottiva

Intervista sulle adozioni in russia

Alle volte ascoltare una storia significa immergersi in qualcosa di inatteso e doloroso. E’ questo che succede quando Luisa, con la sua voce sottile ma decisa, con sprazzi di ironia che non ti aspetti, ti svolge davanti le vicende che così intensamente hanno rivoluzionato la sua vita.

Partiamo dall’inizio, come avete scelto l’ente per la vostra adozione?
Nel gennaio 2004 iniziammo a contattare gli enti presenti nella nostra città per avere un colloquio informativi. La nostra scelta si indirizzò verso quelli più grandi e che avevano “numeri importanti” in fatto di adozioni.

Alla fine quale ente sceglieste?
A fine maggio avemmo l’ultimo appuntamento con un ente che ci aveva segnalato un nostro caro amico, il quale, ci fece anche incontrare alcune famiglie che avevano adottato o stavano adottando con loro. Tutti si dissero soddisfatti della professionalità, serietà, capacità e organizzazione di questo ente. L’incontro con la persona che ci accolse nella sede di Roma fu molto cordiale. Ci parlò della storia dell’ente, dei paesi nei quali erano accreditati, degli istituti, dei bambini, ci illustrò in modo anche dettagliato la procedura, i documenti, i tempi, le tariffe. A giugno 2004 decidemmo di dare mandato a questo ente dopo aver incontrato la responsabile della sede di Roma. Il nostro era un mandato aperto, quindi di fatto non scegliemmo alcun paese. Ci venne assegnata la Federazione Russa.

L’attesa dopo fu lunga?
Lunga, sì. Dal momento del mandato passarono quasi due anni anche a causa del blocco, imposto dalla Federazione Russa per tutto l’anno 2005. A settembre 2004 iniziammo un corso tenuto da una psicologa dell’ente, a cadenza mensile.
Nel frattempo avevo iniziato a leggere libri sull’adozione, avevo scoperto che in rete esistevano molti siti che ne parlavano. Tornai a rileggere la storia russa, a documentarmi sulla situazione politica, sulle condizioni della società. Il corso del nostro ente prevedeva 6 incontri. I temi affrontati erano da “copione”, anzi da manuale. La Russia, il suo sistema, i suoi bambini, il suoi istituti, rimanevo sullo sfondo. In primo piano: la ferita dell’abbandono, l’attaccamento, le sfide, l’alimentazione, problemi sanitari, le schede mediche… argomenti generali. Teoria tanta teoria.

Vi chiamarono per degli abbinamenti?
Eravamo arrivati a dicembre quando un pomeriggio mi telefonò la psicologa dicendoci che forse per noi poteva esserci la possibilità di un abbinamento con un bimbo di otto anni. Avevamo indicato una fascia di età 3-6 anni. Avevamo fatto solo tre incontri, come mai mi chiedevo, avevano chiamato proprio noi? Io avrei voluto accettare, non mi spaventava l’idea di un bimbo grandicello, anzi …. Mio marito invece mi disse senza troppi giri di parole che non se la sentiva, non così. Seguirono tre giorni di grandi discussioni, confronti, eravamo su posizioni distanti e diverse. Non fu facile prendere in mano il telefono e dire “No, non ce la sentiamo”. Fu un momento triste e anche difficile. Ero delusa e ferita dal rifiuto di mio marito e per molto tempo quel rifiuto continuò a pesare su di noi e su di me in particolare.
Nei primi mesi del 2006, finalmente arrivarono i primi riaccrediti per gli enti italiani. Il 16 marzo ci fu detto: “Voi partite per San Pietroburgo il 25 marzo”. Ci consegnarono il piano del volo e ci dissero di rimanere in attesa della spedizione dei biglietti. Eravamo increduli, storditi ma felici. Le date cambiarono molte volte. Partimmo il 15 maggio

Mi pare di capire che vi dissero di partire ma non vi dissero niente di vostro figlio. Come mai?
Perché il reale abbinamento avvenne il 16 maggio a San Pietroburgo. Eravamo accompagnati dalla referente e da un interprete. La referente entrò per prima nell’ufficio, chiuse la porta e rimase oltre una ventina di minuti da sola con il funzionario russo. Quando quella porta si riaprì ci annunciarono che eravamo stati abbinati a un maschietto “un bel maschietto di otto anni”. Inutile ritornare sulle emozioni e sui pensieri di quel momento. Stava accadendo tutto così rapidamente e in un modo che non capivamo e in un mondo che non era il nostro, in una città straniera, tra persone che ci apparivano fredde, distanti. Per loro era solo un lavoro, per noi, invece, era il momento più importante della nostra vita. Il funzionario ci mostrò la foto del bambino e ci diede le prime informazioni. Era un bimbo orfano, entrato in istituto all’età di 5 anni. Ci dissero che se volevamo potevamo incontrarlo.
Ci dissero che l’incontro con il bambino non era “vincolante”. Dopo “aver visto” e solo dopo qualche giorno, avremmo dovuto decidere se accettare oppure rifiutare l’abbinamento. Questa cosa ci trovò impreparati. La referente ribadì il concetto perché si accorse che eravamo alquanto perplessi. Per noi era scontato aver accettato nostro figlio.

Cosa accadde dopo? Incontraste subito A.?
No. Il secondo passaggio fu l’incontro con l’assistente sociale del quartiere nel quale si trovava l’istituto. Eravamo accompagnati solo dall’interprete. Incontrammo una persona cordiale e sorridente che ci raccontò del bambino. Ci disse che lo aveva visto molte volte nel corso di quei tre anni. Poi a bruciapelo ci chiese: “Perché avete scelto proprio A.?” Rimanemmo interdetti, ancora una volta. Scelto? Ma scelto cosa? Chi? Intervenne l’interprete a spiegare che noi italiani non potevamo scegliere i bambini, perché la nostra legge non lo consentiva L’assistente sociale ci accompagnò all’istituto. La direttrice e l’assistente sociale dell’istituto ci raccontarono la storia famigliare del bambino. Tutto veniva tradotto dall’interprete.
Dopo la morte della mamma il bambino aveva vissuto qualche mese con la zia e il nonno, entrambi disoccupati. Una famiglia molto povera. Erano stati loro a decidere di portare il bambino in istituto. Chiedemmo qualche notizia in più della mamma, morta giovanissima.
Ci fu tradotto che non sapevano conoscevano la causa della sua morte. Chiedemmo che ci venisse chiarito cosa significava che “il bambino qualche volta dormiva con la zia”. La direttrice rispose e l’interprete ci tradusse: che quando viveva a casa il bambino dormiva insieme alla zia”. Non mi convinceva e tornai alla carica: “Che tipo di rapporto tra il bambino e la zia?” L’interprete ci riferì che da quando il bambino era entrato in istituto il nonno era andato una sola volta a trovarlo. Da due anni non si era più visto nessuno della famiglia. Ci fu mostrata la scheda sanitaria e le analisi fatte al bambino. La dottoressa confermò che il bimbo non aveva problemi di salute, era solo un più piccolo rispetto ai livelli di crescita della sua età.
Quando ci mostrarono la foto del bambino scoppiai a piangere davanti a quel visetto sorridente e a quegli occhi incredibilmente all’insù, a quelle due meravigliose fossette e riuscivo solo a pensare: “Ma sei tu? Proprio tu? Sei tu il bimbo che in tanti mi hanno chiesto di immaginare nell’attesa?”.
Poi andammo da A.
Prima della nostra partenza la direttrice ci chiese di formalizzare l’accettazione. Infine, l’assistente sociale della municipalità di San Pietroburgo incontrò il bambino, in nostra presenza, per chiedergli se aveva capito chi eravamo noi due e se era contento di venire a vivere con noi nella nostra città.
Il bambino sorridendo rispose indicandoci: “Mama Luisa i papa Marco. Da. Rim, Italia”. Ripartimmo il 21 maggio.
Sapevamo che ci attendevano alcuni mesi di attesa. Eravamo felici, euforici e con tante, tante cose da fare. Le foto del bambino con le fossette erano in ogni angolo della nostra casa e ci rassicuravano: non era un sogno. Era accaduto.

Sono passati molti mesi per tornare da lui?
Passarono cinque, lunghi mesi. Passò l’estate e poi arrivò l’autunno. Eravamo consumati da quell’attesa, inaspettatamente lunga. Avevamo chiesto più volte al nostro ente di metterci in contatto con il bambino, come ci aveva suggerito di fare la referente di San Pietroburgo. Era importante mantenere e “nutrire” quel filo, tenue e sottilissimo (una specie di cordone ombelicale adottivo) che ci legava a lui. Con la sua solita voce fredda e distante, l’ente, ci ricordò che “quel bambino non era niente per noi e noi non eravamo niente per lui, almeno fino alla sentenza”.
Tornammo a San Pietroburgo il 19 ottobre. La data della sentenza era stata fissata per il 23 ottobre. A quel punto eravamo tesi, preoccupati, angosciati. Stanchi.

Cosa trovaste la seconda volta a San Pietroburgo?
A San Pietroburgo trovammo una situazione difficile e in parte compromessa da tutti quei mesi di attesa trascorsi senza che noi potessimo telefonare o scrivere. L’interprete ci disse senza troppi giri di parole che la situazione era “molto brutta”. La direttrice era infuriata con noi perché da maggio non ci eravamo più fatti sentire. Il bambino non era più sicuro di voler venire via con noi. E poi era ricomparsa la zia, contraria all’adozione del nipote. Tutti le nostre paure si erano materializzate. La referente ci raccontò che la settimana prima aveva incontrato A. e gli aveva portato una letterina da parte nostra. Ovviamente lei aveva scritto la letterina. Quella letterina che io avevo supplicato di scrivere, l’aveva scritta lei un’estranea che neanche ci conosceva!!! L’incontro con la direttrice fu terribile, era molto aggressiva nei nostri confronti.

E voi?
Noi chiedemmo all’interprete di tradurre parola per parola quello come avevamo vissuto in quei mesi, quello che avevamo fatto per bambino, tutti i pensieri per lui, le nostre richieste all’ente di scrivere e il divieto che avevamo avuto …. L’assistente sociale ci disse che prima di rivedere A. dovevamo parlare di una cosa molto seria: la zia del bambino non era convinta di firmare il consenso per l’adozione del nipote e come condizione aveva chiesto di incontrarci. Ci dissero che dipendeva tutto da noi, che solo noi potevamo convincerla.

E’ legale?
Chiedemmo subito se era legale quella procedura, cioè incontrare i parenti del bambino. Ci risposero che era abbastanza frequente. Ci dissero che la zia del bambino era una ragazza giovane, analfabeta, alcolista e disoccupata. Non poteva ottenere l’affido del nipote, ma poteva impedire l’adozione del bambino. Eravamo spaventati, eravamo soli (non c’era la referente, solo l’interprete) e non avevamo più la lucidità di fermarci a riflettere, a pensare. Ci ripetevano che tutto dipendeva da noi e dalla nostra decisione. Accettammo. Subito dopo ci fecero vedere il bambino.
Nei suoi occhi un grande tormento e una profonda sofferenza. Insieme a lui incontrammo l’assistente sociale del distretto.
Assistemmo a una scena che ancora oggi mi è difficile. Venne chiesto al bambino di decidere se voleva essere adottato oppure no. Lui, piccolo bimbo di otto anni, con un sussurro di voce rispose: “Non lo so, ho paura, non li conosco. Li ho visti una volta sola e poi non li ho più sentiti”. Gli fu detto chiaramente che se non voleva essere adottato, allora, sarebbe rimasto in istituto fino a 18 anni. Lui rispose: “ No, in istituto non ci voglio più stare e se mia zia non mi può portare a casa allora vado via con loro”. Eravamo annientati.
Nessuno ci aveva preparato a tanto, nessuno ci aveva detto che poteva accadere quello che noi stavamo vivendo. Ancora oggi mi chiedo, pensando a quella giornata “degli inganni”, dove trovammo la forza per andare avanti, sembrava un incubo senza fine, un gioco al massacro. Ci dissero che ormai tutto dipendeva da noi, solo da noi. In pochi giorni dovevamo -secondo loro- riconquistare la fiducia di un bambino che non ci voleva più e che aveva paura di noi. Nel pomeriggio c’era l’incontro con la zia.
(continua)
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