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Neve ucraina

Autore/i: Anna Davini

Data: 15-03-2006
Argomento: Paesi

900 km da Kiev, rotaie dritte, 900 km di rotaie per arrivare. Una notte intera insonne. Un treno lungo la campagna deserta e bianca, incontro a storia e

 

 

 

 

 

 

 

 

 

geografia antica e recente: Zar e zarine, cosacchi e tartari, Napoleone e marce faticose nella steppa, Lenin e Stalin, il Generale Inverno. Ricordi usati per ingannare l’impazienza dell’incontro più sognato e finalmente l’arrivo in una piccola stazione. Scendere i gradini ed affondare nella neve, camminarci dentro con l’impaccio di chi non c è abituato e aggrapparsi al braccio di una sottile

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ragazza dagli occhi pervinca, mentre si desidera un caffé italiano e si ha quasi paura di conoscere quel figlio sconosciuto, difficile concentrarsi: ancora impossibile crederci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ancora neve

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All’esterno di un aeroporto militare dismesso e recintato da cancellate cifrate con falce e martello c’era un bosco incantato. Un generoso taxista siberiano, ex pilota d’aerei da caccia, dagli occhi azzurri e i denti d’oro, non avrebbe potuto scegliere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

meglio un posto per un invito a pranzo. Fra alberi carichi di neve, su un fuoco dentro un pentolino, coceva la carne. Antica ricetta in nostro onore: piccoli pezzi marinati forse nel vino e nella cipolla, sobbollivano in una salsa rossa piccante, stuzzicando i nasi con un impudente profumo. Le dita momentaneamente liberate dai guanti pescavano pezzetti caldi da mordere, e ogni boccone veniva affogato da un sorso di vodka che scendeva liscia a scaldare i cuori e le vene. Ricordi per sempre, echi di risate, carne e vodka mischiati ad improbabili canti russi- ucraino-italiani intorno al fuoco sulla neve.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Neve di notte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il buio era pieno in quella strada larga e io non mi decidevo ad andarmene.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I lampioni erano spenti per il risparmio energetico e solo di tanto in tanto qualche vecchia auto con la tosse, passava illuminando coi fari gli alberi spogli e poi di nuovo solo l’alone sfocato della neve. Il fiato freddo si univa al fumo delle sigarette fumate nel silenzio. Le scarpe affondavano piano, morbidamente mentre spostavo il peso del corpo da un piede all’altro. Dita gelate sfioravano in una tasca un copeco portafortuna trovato la mattina e i pensieri si confondevano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cresciuta nel sole, guardavo incantata la neve che cadeva dal cielo nero, mi sembrava di ricevere un dono e di essere precipitata in sogno vago più grande di me: Una presenza estranea in un mondo di ghiaccio, arrivata per caso e accolta in questo modo dalla natura. Gli occhi seguivano i fiocchi impazziti, che attiravano dall’altra parte della strada dove c’era un muro alto e aldilà un caseggiato grande. Cumuli bianchi sul muro e sui rami nel cortile e sul tetto pendevano spuntoni di ghiaccio e più sotto tante finestre in fila tutte uguali. Finestre grandi e senza persiane. Vetri neri, spenti. Mentre le ciglia si ghiacciavano, una piccola luce in movimento filtrava da un vetro, un chiarore che danzava e si spostava da una finestra all’altra tracciando un sentiero. Una candela accesa nella notte: un piccolo richiamo, forse un saluto, forse un controllo su quei lettini tutti uguali. Dopo nuovamente il buio. Lentamente, detestando le mie impronte, me ne andai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Neve ed acqua

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tre anni dopo : 1200 km da Kiev, Ancora un figlio, maggiore consapevolezza, diversa ansia. Decine di laghi e laghetti ghiacciati. Acqua ovunque. Uomini chini su lastre bucate intenti a pescare. La fine del Danubio Blu in una Terra di confine, crocevia di etnie, lingue e religioni. Un porto fluviale, navi militari e bastimenti e grandi gru di ferro svettavano rugginose dall’acqua coprendo l’orizzonte. Una mattina caliginosa e umida da freddo nelle ossa. Un dedalo di viuzze di periferia, tante casette di lamiera e legni spezzati ed inchiodati alla bel e meglio su cortili ingombri di qualsiasi cosa. Un fumo sottile e nero saliva in aria da una discarica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a cielo aperto. Cani smagriti ci frugavano e non solo cani, c’erano persone dentro e c’erano bambini. Poi il fuoristrada nero girava in fretta e tutto spariva insieme all’ansia di arrivare e ancora strade e posteggi e chioschi: piccoli spacci di cioccolato e sigarette. Guardavo ammirata le donne che con grande abilità

 

 

 

 

 

 

 

 

 

scavalcavano solchi profondi pieni di fango, riuscendo a non sporcare lunghi cappotti che sfioravano la terra e scarpette e stivaletti con il tacco quasi a spillo. Ogni passo che mettevo io, era uno schizzo marrone più lungo addosso. Macchiati e divertiti capitare per caso ad una festa privata in ristorante: gente “importante” tirata a lucido, tavolini apparecchiati con cura meticolosa, sottili tovaglioli di carta piegati a ventaglio. Pane all’aglio e antipasti di pomodori fermentati e cetrioli frizzanti, varienichjk di pasta ripiena di patate in salsa di panna acida, stufato di carne, funghi e patate in piccole zuppiere di coccio scaldate, spiedini di frutta esotica e grandi dolci e croccanti mele moldave, champagne russo e vodka a volontà. Andare via: uno strappo faticoso, ero ancora lì e già il pensiero andava ad un ritorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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