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Fotografie, immagini di Kiev 6 anni fa
Autore/i:Anna Guerrieri
Data: 15-03-2006
Argomento: Paesi
Ricordo, a Kiev, una metropolitana immensa, arteria pulsante della città: tunnel, archi, strade sotterranee. All’inizio avevo paura di perdermi, non individuavo i punti di riferimento. Mio marito si, ma lui è sempre stato abilissimo nel ritrovare la strada. Poi piano piano il cirillico divenne sempre più familiare: Lissova, Hidropark, Ploshka Lva Tolstoho.
Ploshka Lva Tolstoho, la nostra fermata, alla confluenza con Kreschatik, immensa la strada. Ed ecco in angolo una panetteria. E poi un negozio di souvenir, e poi un piccolo supermercato di stampo sovietico. Si faceva la fila per tutto. Per il pane:fila. Per il latte:fila. Per la pasta:fila. E dovevi parlare in russo per forza perchè se no non ti capivano né ti servivano. Un passo più giù il cambiavalute coi suoi cambi esposti; giorno per giorno vedevi sul cartello l’inflazione che erodeva il valore della grivna. Si cambiavano pochi soldi per volta.
Piazza dell’Indipendenza, con la sua enorme fontana dove si poteva quasi passeggiare. Si perchè gli spruzzi andavano a tempo. E un immensa mattina di sole, mio figlio ormai libero, corse e attraversò mille volte la fontana dell'indipendenza.
Parco Shevchenko, coi suoi alberi imponenti e la sua area per bambini, il primo parchetto di mio figlio, i primi giochi, i suoi primi tentativi di fare amicizia. Lui figlio di un’Ucraina diversa da quella degli altri bambini che correvano felici nelle aree gioco. Lui dalla pelle di un altro colore. Non tutti accettavano i suoi approcci. Poi apparve un bambino con ben due spadini, un Peter Pan che volteggiava tra le corde tese di un gioco a rete, un figlio spavaldo della libertà. Mio figlio lo inseguiva e lo ammirava. A Peter Pan piaceva molto essere ammirato. Gli piaceva mio figlio, questo bimbo avventuroso che si lanciava in avanti ... pronto a ricevere accettazione o rifiuto. Riconosceva in mio figlio lo stesso spirito che non si abbatte. Insieme iniziarono a giocare ed io mi sentii madre per la prima volta al parco Shevchenko.
Ricordo una strada in salita che si avvolgeva nel quartiere vecchio e saliva, saliva incessante. Lì c'era la casa di Bulgakov, qui le bancarelle, sempre più su. E alla fine del camminare, come per incanto (chissà se ricordo bene) una chiesa azzurra dalla cupola d’oro. Un azzurro innocente. Un azzurro da golfino dei bambini. Una cupola sfavillante. Dentro accesi una fiammella a queste icone. Una fiammella di ringraziamento.
Nelle Pecherska Lavra, le grotte del monastero, uno dei più sacri monasteri di tutta
Il mercato. Il mercato dove quotidianamente facevamo la spesa per noi e per gli altri bambini. Portavamo sempre mele, banane e pomodori, per tutto il gruppo. Le loro vitamine. E ci abituavamo a capire i soldi, a saper ringraziare e chiedere. Guardavamo la gente negli occhi, per capire, capire la terra che ci dava il nostro bambino.
Avanti e indietro per i grandi boulevard, perchè mio figlio all’inizio era affascinato dalla strada. Terra di scoperte e libertà. Per lui le macchine, gli autobus erano festa grande. Per lui le scale mobili della metro erano un gioco. Instancabile e stanchissimo, ingordo di vita.
Non riesco a ricordare un singolo giorno di pioggia. Eppure a volte ha piovuto. A fine agosto era già freddo.
Un carroarmato e una dacha
Ci sono dei momenti, a volte, in cui i pensieri sembrano fluidi, in cui la mente sembra andare oltre gli angusti confini del quotidiano. Come per incanto tutto trova un suo senso, un suo significato. Sono momenti rari. E restano scolpiti per sempre nella memoria. A me è capitato in un parco (forse il parco della Fratellanza ... quella russo ucraina si intende) una mattina di intenso sole.
Eravamo assieme da due giorni appena e due persone dell’equipe di procuratori che ci seguiva avevano deciso di portarci “in gita turistica”. Piccolo dettaglio: non c’era la nostra traduttrice. Ricordo la fatica di ascoltare e di cercare di capire, la frustrazione di non riuscire a dire. Ci capivamo tuttavia e quello che riuscivo a comprendere mi apriva spiragli improvvisi di luce sulla realtà delle persone attorno a noi. Ad un certo punto passarono dei soldati, marciando e Valentina chiese a mio figlio: “Guarda, i soldati, cosa fanno secondo te?” Mio figlio imitando il loro passo rispose senza esitare: “Soldat, tanzuvaie!” I soldati danzano. Si i soldati danzano negli occhi di un bambino. Danzano. Hanno danzato a lungo in Unione Sovietica e quel parco ne era testimonianza certa. Nel verde dei prati ben rasati si stagliavano enormi carri armati. I primi veri carri armati della mia vita. Così vicini. Si potevano toccare. Fu lui, Sasha, a spiegarmi che erano carri armati della guerra in Afghanistan. Carri armati dell’Afghanistan. La mia mente andò come in corto circuito. Poi Sasha prese mio figlio e lo mise a sedere su un carro armato. Felice cucciolo alla scoperta del mondo. Ed è così che mio figlio splende in questa foto. Lui, figlio misto di una terra di confine, seduto su un vero carro armato da guerra, per mano ad un tipico russo cinquantenne, ex colonnello del KGB che ora si occupava di adozioni. Ridevo scattando la foto. Rido ancora vedendola. Per la tenerezza. Perchè quella foto mi dice quanto sia strana ed ironica e terribile la vita. In Afghanistan i carri armati sovietici hanno seminato morte. Dall’Afghanistan i reduci sovietici sono tornati mutilati e senza futuro. Li vedevi seduti alle entrate e alle uscite della metropolitana, chiedere rigidamente un’elemosina che doveva costare molta fatica. Mio figlio è il futuro di un mondo, dove le distinzioni di colore non hanno più senso, dove le carcasse delle guerre giacciono nei prati.
Quel pomeriggio Valentina ed Sasha ci portarono con loro alla dacha di Sasha Di fatto una semplicissima e piccolissima casa in campagna sepolta nel verde, nascosta da un’ansa di un Dnipro contaminato nel profondo da Chernobyl cento chilometri più a nord. Ecco, qui davvero eravamo in un territorio non mappato. Dove tutti parlavano veloce, senza agganci o traduzioni. Ci venne riservata una calorosa accoglienza attorno ad un tavolo di legno semplicemente apparecchiato. Io e mio marito accoglievamo quello che ci veniva dato, senza pretendere di essere diversi da quel che eravamo, stranieri provenienti da un mondo lontano. Con la zuppa di grano, le aringhe salate, i cetrioli marinati brindare con un bicchiere di vodka non ci stava poi così male. E quindi, senza esitare abbiamo partecipato ai brindisi, alzandoci in piedi quando si doveva e bevendo sino in fondo. Alla nostra e vostra salute. E soprattutto a quella di nostro figlio. E nostro figlio? Eccolo rimpinzarsi di zuppa e cetrioli, cocomero e pane. A pancia piena apparve stanco e venne lestamente spedito a letto di sopra ... con la vecchia nonna. Io lo seguii veloce e al di là di ogni mia immaginazione ci trovammo stesi su un letto in tre: io, lui e una vecchia babushka sorridente. Il materasso mi ricordò quelli d’erbe di mia nonna, in un’infanzia di tanti anni fa.
Tornammo a Kiev di notte, mio figlio esausto ed anche un poco isterico. Anche noi lo eravamo. Era la vodka? La giornata? O era tutto? Questo esser madre e padre di un figlio che ancora non ci apparteneva, che ancora non conoscevamo, che ancora ci parlava parole sconosciute e seguiva ritmi e regole che non capivamo. O forse era solo che eravamo ubriachi di vita?