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Il sole arde lontano

Autore/i:
Anna Guerrieri

Data: 15-03-2006
Argomento: Paesi

Il sole arde lontano perso dietro una coltre di nubi bianche. Il caldo arriva ad ondate, strato dopo strato di aria infuocata. All’inizio non lo senti quasi, preso dalle immagini nette di un mondo questa volta sì completamente nuovo. Poi inizi a sentire i vestiti che ti pesano e vedi quest’orizzonte piatto, schiacciato dall’umidità afosa che dal mattino si protrae sino alla notte. Il sole arde lontano, ma tu non lo vedi, lo senti, lo pensi. E’ il sole che tiene viva questa terra riarsa, che cresce le palme e le piante, è il sole che scalda e che brucia, che asciuga i fiumi e che evapora le acque. E il sole che ti insegue.

Cammino nel giardino dell’albergo in attesa e mi sento come sospesa. L’albergo è una campana di vetro che ti separa dal mondo fuori, dalla Cambogia che hai appena intravisto arrivando dall’aeroporto in taxi, dal traffico repentino della città, dal caos delle moto e delle biciclette, dai carri che si intrecciano carichi di persone che tornano dal lavoro. Loro con i krama avvolti attorno al volto per non respirare la polvere densa, tu occidentale dentro una macchina con l’aria condizionata. L’albergo ti avvolge e separa, il “fuori” è lontano. Cammino nel giardino dell’albergo in attesa e lì il sole sembra più gentile. I suoi raggi trasportano il profumo dei fiori che fitti si arrampicano sui tronchi delle palme. E mi fermo a guardare le orchidee violacee, i gelsomini stellati, petalo dopo petalo in ondate di

dolcezza vellutata che ti avvolgono incessanti. Respiro i fiori in Cambogia e non posso fare a meno di ricordare che il nome della figlia che sto per incontrare è il nome di uno dei tanti tipi di gelsomino che permeano ora la mia aria. I gelsomini, così leggeri e fragili e intensi, sono ovunque io mi volti.

Mi abituo a respirarli.

Poi, arriva il momento di andare. Di nuovo in macchina, di nuovo Phnom Penh, di nuovo fuori dall’area astratta dell’albergo che ospita gli occidentali. Ci si muove lenti a Monivong. Lente le regole del traffico e strane e dettate da leggi istantanee. Vedi la vita fuori che ferve e sai di essere così lontano da questo mondo. Fuori la

prima cosa che noti sono le strade sterrate che si dipanano dall’arteria principale. E lungo i bordi le infinite bancarelle che vendono tutto e ancora oltre le baracche che si accatastano le une sulle altre poco oltre i palazzi delle strade principali. I bambini con la camicetta bianca della scuola camminano veloci e sorridenti accanto ai bambini senza meta che passano da un bidone all’altro, stanchi, accanto ai contadini esausti della giornata che tirano i loro carretti. E scorre lenta Monivong mentre tu stai andando incontro al tuo futuro e piano piano diventa

campagna. Le case si diradano ed anche le baracche cittadine. Restano rare ville in costruzione dipinte d’oro e di verde. Restano le palafitte e ai bordi delle strade le baracche dove qualcuno vende qualcosa. Restano i bambini nudi che giocano ai

margini delle palafitte e le palme e la vegetazione sempre più intensa e verde e umida. Restano i posti di blocco e la polvere della strada. Sino a quando la strada svolta e un cancello ti attende. Mi sento goffa qui in Cambogia, così incapace di

rispondere ad un saluto con la naturalezza che richiederebbe. Le mie mani non mi sembrano abbastanza nette nel congiungersi né la mia testa abbastanza veloce nell’inchinarsi, il Satò mi esce in un sussurro ed ho sempre la sensazione di non

essere abbastanza garbata. Cerco di non pesare su questa terra scivolando assieme al mio fiorebambina dal volto dolcissimo e dagli occhi perfetti. Cerco di assaggiare tutto nei pochi giorni che mi restano e di ricordare i profumi e i suoni. So che è poco, troppo poco, so che dovrò tornare, so che non potrò farne a meno. E’ un universo quello che mi accoglie e sento di stare facendo troppo poco, di stare capendo troppo poco. La notte è calda a Phnom Penh e buia. Fuori dai locali illuminati vedi chi ti insegue per un’elemosina e avverti cosa significhi qui stare così. La povertà ha una dimensione diversa in Cambogia.

In questa città si vive per la strada, per strada si lavora e per strada si arrangia il giorno con la notte.

La strada è la vena viva di Phnom Penh e per strada sento di dover andare per capire almeno quel poco che posso capire. Sulle moto in tre mi aggrappo a mio figlio e al conducente maledicendo di avere un marito che nulla evita pur di vivere quello che si può vivere di ogni posto dove cammina. Mi aggrappo con forza ad ogni inversione ad U e tremo capendo che il conducente stesso non ha capito bene dove si debba andare. Bevo la polvere e mi aggrappo alla moto sperando di non finire in un incidente e pensando che in fondo lo dovevo fare. Sui tuktuk a motore posso rilassarmi e lasciarmi andare al vento caldo che mi investe. Sono i tuktuk a portarci ovunque, non più chiusi nei taxi, non più separati.

Nella Pagoda d’argento il pavimento è freddo e l’oscurità fresca. Ascolto la storia di quando il Palazzo reale venne chiuso nell’anno “zero”, quando i Khmer rossi entrarono in città attraverso Monivong, sempre Monivong. Ascolto e come sempre non posso fare a meno di ricordare che erano solo trenta anni fa. Solo trenta in fondo. Impossibile non chiedersi cosa successe al quarantenne che ti passa accanto. Dove erano le persone che ti sono vicine mentre i Khmer rossi uccidevano il paese, persona dopo persona, bambino dopo bambino. Non puoi fare a meno di pensare alla fame ed alla paura e alle guerre ed alle armi che hanno abitato la Cambogia.

Mi fermo a guardare un piccolo Buddha di oro e giada, piccola statua perfetta e senza tempo. La linea delle palpebre chiuse è come l’acqua lasciata sulla sabbia del mare in una mattina senza vento. Sono gli occhi di mia figlia. L’ultima notte a Phnom Penh assaporo lentamente la frutta, la buccia sottile si apre e affondo il coltello nel frutto bianco dolce-acidulo dai semi neri. Mangio piano i frutti. Respiro l’aria densa di orchidee. Saluto i gechi che mi occhieggiano dalle pareti del corridoio. E’ notte ora. Domani saremo a Bangkok sulla strada del ritorno. Torneremo!

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