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Bambini in carcere - da zero a tre anni
Autore/i: Anna Vittoria MuzzettoData: 10-02-2007
Argomento: Minori
Qualche tempo fa, ho visitato un carcere del Nord Italia.
Ospitava anche un certo numero di detenute. Tra loro vi erano alcune madri che avevano con sé i propri figli: questa situazione si verifica quando non è possibile essere certi che il bambino riceva all’esterno cure adeguate (ad esempio quando anche il padre sia a sua volta un detenuto); oppure quando il bambino è talmente piccolo che la madre ha il diritto di tenerlo con sé, nella prospettiva che le venga concesso il beneficio di una pena alternativa alla detenzione in carcere (es. arresti domiciliari), in virtù della condizione stessa di madre (questa soluzione è prevista già dalla L. 354/1975, poi perfezionata dalla L. 40/2001, come si può leggere in: http:// www.ristretti.it/areestudio/donne/ricerche/mattei/index.htm).
La vita di questi bambini segue i ritmi e le abitudini del carcere, dal quale non è loro permesso uscire. La maggior parte del tempo viene trascorso in cella, insieme agli adulti (in ogni cella vi sono in media 4 o 5 persone).
Senza naturalmente generalizzare, ho notato che spesso queste donne sono poco reattive, progressivamente rassegnate e passive, prive di progettualità, in certo modo annientate dalla loro condizione. È ovvio che una tale atmosfera psicosociale si rifletta anche sui piccoli.
Penso che a questo proposito manchi in generale nel sistema detentivo una strategia rieducativa e di sostegno, che cerchi di
rendere il “tempo carcerario” un tempo per riprogettarsi: questo avrebbe certamente anche una ricaduta positiva sulla gestione delle situazioni limite di madri carcerate con figli “detenuti”.
Qualcosa comunque è stato fatto: in un’ala del carcere la direzione ha destinato a questi bimbi due ambienti più luminosi e più ampi rispetto alle celle, con le pareti colorate e attrezzati per il gioco e per attività creative guidate da educatrici, che seguono i bambini per qualche ora ogni giorno. In questo modo essi ricevono stimoli differenti (a partire dallo stesso ambiente circostante) rispetto alla routine quotidiana, instaurando relazioni sociali, anche con i pari, che superano il limite della cella.
La scelta di tenere i bambini vicino alla propria madre in mancanza di una figura affettiva alternativa fuori dal carcere non è facile: da una parte è certamente importante che il bambino (soprattutto nei primi mesi e anni di vita ) abbia una figura d’attaccamento; dall’altra parte è indubbiamente un grande limite al suo sviluppo vivere all’interno di un carcere, nel quale gli spazi sono estremamente ridotti, non si ha la libertà di variare gli stimoli psicofisici e l’atmosfera psicosociale, nella quale è immerso, è quantomeno anomala.
Ospitava anche un certo numero di detenute. Tra loro vi erano alcune madri che avevano con sé i propri figli: questa situazione si verifica quando non è possibile essere certi che il bambino riceva all’esterno cure adeguate (ad esempio quando anche il padre sia a sua volta un detenuto); oppure quando il bambino è talmente piccolo che la madre ha il diritto di tenerlo con sé, nella prospettiva che le venga concesso il beneficio di una pena alternativa alla detenzione in carcere (es. arresti domiciliari), in virtù della condizione stessa di madre (questa soluzione è prevista già dalla L. 354/1975, poi perfezionata dalla L. 40/2001, come si può leggere in: http:// www.ristretti.it/areestudio/donne/ricerche/mattei/index.htm).
La vita di questi bambini segue i ritmi e le abitudini del carcere, dal quale non è loro permesso uscire. La maggior parte del tempo viene trascorso in cella, insieme agli adulti (in ogni cella vi sono in media 4 o 5 persone).
Senza naturalmente generalizzare, ho notato che spesso queste donne sono poco reattive, progressivamente rassegnate e passive, prive di progettualità, in certo modo annientate dalla loro condizione. È ovvio che una tale atmosfera psicosociale si rifletta anche sui piccoli.
Penso che a questo proposito manchi in generale nel sistema detentivo una strategia rieducativa e di sostegno, che cerchi di
rendere il “tempo carcerario” un tempo per riprogettarsi: questo avrebbe certamente anche una ricaduta positiva sulla gestione delle situazioni limite di madri carcerate con figli “detenuti”.
Qualcosa comunque è stato fatto: in un’ala del carcere la direzione ha destinato a questi bimbi due ambienti più luminosi e più ampi rispetto alle celle, con le pareti colorate e attrezzati per il gioco e per attività creative guidate da educatrici, che seguono i bambini per qualche ora ogni giorno. In questo modo essi ricevono stimoli differenti (a partire dallo stesso ambiente circostante) rispetto alla routine quotidiana, instaurando relazioni sociali, anche con i pari, che superano il limite della cella.
La scelta di tenere i bambini vicino alla propria madre in mancanza di una figura affettiva alternativa fuori dal carcere non è facile: da una parte è certamente importante che il bambino (soprattutto nei primi mesi e anni di vita ) abbia una figura d’attaccamento; dall’altra parte è indubbiamente un grande limite al suo sviluppo vivere all’interno di un carcere, nel quale gli spazi sono estremamente ridotti, non si ha la libertà di variare gli stimoli psicofisici e l’atmosfera psicosociale, nella quale è immerso, è quantomeno anomala.