Autore: 
La mamma di Advik e Francesca Angela Dorè Bufi, pedagogista e maestra di scuola d’infanzia

Open Day (La voce della famiglia)

L’esperienza scolastica della nostra famiglia è iniziata tre mesi prima dell’arrivo di Advik.
 
Siamo andati, non senza una certa emozione, all’open day che la scuola dell’infanzia aveva organizzato. Ovviamente quell’evento non era pensato per noi: era destinato alle famiglie che si apprestavano ad iscrivere i bambini di tre anni al primo anno dell’infanzia. Advik in quel momento si trovava in orfanotrofio in India e di anni ne aveva già compiuti cinque.
 
Avevamo con noi le preoccupazioni che condividiamo con tante famiglie, specie con quelle i cui figli arrivano già con anni di vita alle spalle, magari da paesi lontani e diversissimi, con esperienze vissute che spesso sono complicate, dolorose, a volte inimmaginabili. Avevamo in mente i tanti compiti difficili che ci aspettavano come famiglia, compiti che riguardavano sicuramente il riuscire a scuola (Advik, come tanti bimbi che arrivano tra i cinque e i sei anni, era alle soglie dell’età dell’obbligo e quindi stavamo utilizzando l’opportunità dell’anno di saldatura per consentirgli di frequentare almeno un anno di scuola dell’infanzia, anche se fuori età…), ma anche quelli più complessi tra cui fidarsi, appartenere, attraversare l’ambiente scolastico come un luogo di emancipazione ed espressione di sé.
 
A quell’open day abbiamo incontrato la coordinatrice del plesso, che poi sarebbe stata la maestra di nostro figlio, e da quell’incontro abbiamo saputo che la scuola c’era, che sarebbe stata nostra alleata in questo percorso.
 
Le tante complessità che caratterizzavano la piccola biografia di Advik, i consistenti problemi di salute, l’arrivo in mezzo all’anno che non rispettava affatto i ritmi e le scadenze della scuola, non erano trattati come problemi da incasellare, non attivavano la paura che quel bambino non fosse adatto per quella scuola. Alle nostre parole, non si correva ai ripari con richieste di certificazioni (dentro quella che Anna Guerrieri, presidente del Coordinamento CARE, chiama la bessizzazione dei bisogni dei bambini adottati) ma si attivavano pensieri creativi che generavano prima di tutto la voglia di incontrare Advik, di conoscerlo non come la somma di mancanza e ritardi, ma come un bambino intero, nella peculiarità della sua esperienza.
 
Il patto stretto quel giorno non è stato tradito, il percorso di Avdik alla scuola dell’infanzia ha concretizzato ogni giorno quello che la scuola può essere, anche per i bambini che arrivano in famiglia un po’ grandi, anche per i bambini che arrivano in famiglia da molto lontano, anche per i bambini che arrivano in famiglia senza aver incontrato la scuola, anche per i bambini che arrivano in famiglia con tante complessità di salute. Anche per i bambini, come Advik, che attraversano tutte queste esperienze insieme.
 
 

Advik a scuola  (La voce dell'insegnante) 

 
Ancor prima di entrare nel vivo del mio lavoro, leggevo e ascoltavo di normative e pedagogisti che avevano, nel tempo, elevato a fondamento della scuola una terminologia “nuova”, ricca di senso e di significato.
 
Inclusione, accoglienza, flessibilità, centralità del bambino.
 
Temi e pensieri che rischiano di restare confinati nel limbo della teoria se non ci si accorge di quante occasioni, invece, offre un ambiente come la scuola. Ancor più la scuola dell’infanzia, primo grande tassello dell’esperienza relazionale fuori dal contesto familiare, in un’età evolutiva pregna di tappe e di traguardi, diversi per ogni bambino, e tutti ugualmente da sostenere e spronare affinché il percorso di crescita avvenga armoniosamente.
 
Il giorno dell’open day, quando la scuola apre le porte alle famiglie che si apprestano a iscrivere i loro figli per l’anno successivo, lo ricordo come un giorno di incontri e scoperte. Tante le famiglie interessate ad elementi organizzativi, orario scolastico e tempo scuola, progetti e didattica. Tante le domande sulle routine della giornata, sul numero di insegnanti per sezione, su quanti bambini ci sono per classe.
 
Il ruolo dell’insegnante durante un giorno di “scuola aperta” è quello di rassicurare, illustrare, entusiasmare. Non c’è teoria, però, che possa spiegare l’emozione incredibile che suscita il conoscere, in maniera del tutto inaspettata, una famiglia che decide di imbarcarsi in un’avventura tanto ignota quanto meravigliosa come l’adozione.
 
I genitori di Advik si sono presentati nella loro semplicità, alla ricerca della conferma che la scuola dell’infanzia fosse il luogo giusto con cui avviare un dialogo che desse, appunto, corpo a quella teoria di cui sopra.
 
Le richieste della famiglia sono state fin da subito chiare: ascolto e flessibilità. E la scuola ha risposto.
 
Uno dei consigli che viene spesso dato ai genitori che adottano un/una bambino/a è di trascorrere con lui/lei più tempo possibile, rinunciando a spazi di “distacco non necessari”, così da rinforzare il legame, incentivare la conoscenza reciproca, stimolare la creazione di un equilibrio nel nuovo nucleo familiare. Sicuramente il tema del legame è importante, nessuno lo nega. La scuola dell’infanzia, in questo scenario, può essere considerata un “distrattore”, un passaggio non necessario in questo processo così complesso e delicato, anche perché (purtroppo) non obbligatoria nel sistema d’istruzione italiano. Poco ci si sofferma a riflettere sul fatto che non si tratta soltanto di decidere quando inserire un’esperienza educativa fuori dalla famiglia, ma di costruire la qualità di quell’esperienza, disegnandola attorno al bambino e ai suoi bisogni.
 
Uno dei primi passi che, insieme alla famiglia di Advik, si è inteso fare è stato proprio ribadire a voci unite quanto fosse di primaria importanza che il bambino iniziasse il percorso scolastico con la scuola dell’infanzia: permettendo al bambino di inserirsi in un contesto relazionale con i suoi pari e con nuove figure adulte di riferimento costruendo questa esperienza in modo che avesse molti più benefici di quanti potessero essere i “costi” in materia di “gestione del distacco” e “accettazione di sé”, non ignorando o minimizzando le caratteristiche del bambino, come la carenza di autostima derivante dalla deprivazione affettiva e relazionale che aveva contraddistinto la vita di Advik fino a quel momento, ma disegnando un percorso per sostenere la sua specifica crescita.
 
È stato necessario instaurare un dialogo costruttivo e aperto scuola-famiglia. La famiglia ha raccontato. La scuola ha accolto il racconto. Da questo processo di costruzione è nato un percorso che tutto aveva fuorché un aspetto rigido e predeterminato. L’intenzione è stata fin dall’inizio quella di creare una strada che potesse, man mano, delinearsi sulle necessità e sulle risposte del bambino.
 
Fondamentale è stata la possibilità di avviare un inserimento graduale, in un momento dell’anno solitamente non dedicato agli inserimenti. Era maggio. Abbiamo predisposto un orario ridotto, di una o massimo due ore al giorno. I genitori restavano fuori dalla classe, dove il bimbo poteva vederli attraverso la finestra. Non è stato un problema “creare un precedente” o dover spiegare questa presenza agli altri bambini: la varietà del mondo, delle storie e delle vite fa parte di quello che i bambini vengono a scuola ad imparare.
 
Il tempo scuola era pensato ad hoc per dedicare spazio e risorse a Advik e al suo ingresso nel gruppo sezione: si è scelto di accogliere il bambino nelle ore della giornata in cui io e il mio collega eravamo presenti entrambi, così da poter dedicare accoglienza e attenzione a tutti i bambini, lavorando sulla relazione e dandoci spazio per l'osservazione di Advik in situazioni concrete. Ogni aspetto era curato: dal sedersi in cerchio per favorire i primi passi della comprensione linguistica alla facilitazione del rapporto con i pari.
 
La giornata scolastica è organizzata in momenti pedagogicamente pensati per essere ripetuti di giorno in giorno sempre nello stesso ordine e con le stesse modalità. Ciò permette ai bambini di familiarizzare con il tempo e con lo spazio di apprendimento in maniera fluida e naturale, potendo prevedere ciò che accadrà e sentendosi sempre più sicuri e padroni delle loro giornate. Ad Advik abbiamo dato la possibilità di abituarsi gradualmente a questi ritmi, inserendo una routine per volta e attendendo il tempo che era necessario affinché quella tappa fosse per lui familiare: con il suo tempo ha iniziato a stare a scuola un pochino in più, poi a mangiare fino ad arrivare, a febbraio dell’anno successivo, a frequentare tutta la giornata.
 
Ricordo con estrema limpidezza lo sguardo del bambino ogniqualvolta si approcciava a qualcosa che non aveva ancora mai sperimentato: la reazione dell’acquerello sul foglio, assistere alle routine del “calendario” (momento dedicato all’intero gruppo classe in cui ci si dà il buongiorno e si lavora sugli aspetti legati allo spazio-tempo e al dialogo), assaggiare un cibo “nuovo”, rivestire un incarico di responsabilità all’interno della sezione.
 
Osservando l’evoluzione dell’inserimento di Advik e la risposta dei suoi compagni di classe si è impostato un lavoro coerente con quello che era stato fino ad allora il percorso dell’intera sezione. Non si trattava di “rallentare” il gruppo. È stato tutto il contrario: il gruppo si è arricchito e ha ampliato le sue potenzialità in una chiave inclusiva fatta di azioni e processi, i quali hanno coinvolto tutti, dai bambini agli adulti. E proprio grazie al gruppo e alla sinergia che si è inteso creare, è intervenuto in maniera del tutto naturale il tema del sentirsi parte del gruppo che per Advik significava toccare il tema dell’appartenenza, così cruciale nella sua storia.
 
L’aiuto reciproco attraverso il peer tutoring e i momenti di condivisione dialogica delle proprie esperienze personali rappresentano strumenti fondamentali affinché fin da piccoli si riesca a riconoscere l’importanza del gruppo, rispettando il tempo dell’altro, riconoscendo le caratteristiche e le peculiarità di ognuno anche in funzione di quanto queste siano fondamentali per andare tutti nella stessa direzione.
 
Advik ha imparato prestissimo che “nessuno resta indietro”.
 
Facendo leva sui punti di forza di ognuno, si è pensato di attivare piccoli focus laboratoriali, formando gruppi di lavoro eterogenei: un laboratorio di lettura dialogica e di drammatizzazione, un progetto legato al viaggio e alla scoperta delle peculiarità di culture diverse, permettendo l’interazione e lo scambio all’interno dei vari sottogruppi di bambini così da coinvolgere tutti allo stesso modo.
 
Tutto questo ha permesso a noi docenti di concentrarci su un aspetto spesso dimenticato e offuscato dalla dinamica per cui “più si fa, più si è bravi insegnanti”: la semplicità delle piccole cose.
La risposta di Advik ci ha rimandato ciò che ci auguravamo: un percorso coerente con lo sviluppo del bambino e concreto rispetto alla realizzazione di obiettivi a breve termine permette ai protagonisti di questo viaggio di sentirsi parte dello stesso, di sperimentare le proprie abilità e di mettere al servizio di sé e degli altri le proprie conoscenze. Di sentirsi competenti e di riconoscere e saper prendersi cura anche delle parti meno forti. Fare “amicizia” col pensiero che queste parti le hanno tutti, e che ognuno deve potersi sentire libero di ascoltarsi. Di darsi tempo. E che il tempo per ciascuno di noi è diverso.
 
La scuola deve poter lavorare in questa direzione, sempre e comunque. Conoscere realtà come quella di Advik aiuta la scuola a ri-centrarsi sui propri obiettivi.
 

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Data di pubblicazione: 
Giovedì, Ottobre 17, 2024

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